È la voce nuova più fresca e interessante del giornalismo gastronomico. Trentotto anni, bresciano di nascita ma piemontese di adozione, Eugenio Signoroni (nella foto di Marco Cenci) è stato eletto food writer dell’anno per il 2021 da Identità Golose, grazie a Lievito Madre, il podcast prodotto da Piano P scelto come miglior serie anche dal Gambero Rosso e tra i finalisti ai Cook Awards del Corriere della Sera.
Per chi frequenta il food & drink, sottolineare chi premia, seleziona o scarta è molto importante. Non solo per il prestigio del marchio, ma soprattutto perché in quel mondo c’è una grossa concorrenza, ed Eugenio fa parte di una delle “parrocchie” storiche. Da anni, infatti, cura la Guida alle osterie e quella alle birre d’Italia di Slow Food, editore con il quale ha pubblicato due manuali “narrativi”: Cuocere e Il piacere della birra. Quindi il fatto che siano i “cugini nemici” ad averlo scelto è indice di reale valore.
Dal 22 aprile Signoroni è il protagonista di un nuovo podcast. Si chiama Beer Revolution, è prodotto da Piano P con Baladin e in sei episodi racconta la rivoluzione italiana della birra artigianale insieme a uno dei suoi principali artefici, Teo Musso. La birra, però, per Eugenio non è solo lavoro: è soprattutto passione, e le chiacchiere che abbiamo fatto con lui tra una registrazione e l’altra vi aiutano a conoscerlo meglio. «La prima birra che ricordo di aver bevuto», dice, «è una Peroni da 66 cl rubata dal frigorifero di mio nonno quando avevo 12 anni, per capire che sapore avesse la bevanda che lui trangugiava mentre era nell’orto».
Nasce da qui la tua curiosità per il cibo?
In realtà, è cominciata un bel po’ di anni prima. Da bambino passavo le giornate con la nonna, che era una grande cuoca, mentre preparava da mangiare: la riempivo di domande sul perché facesse determinate cose. Credo che tutto sia nato lì. Il mio piatto preferito era il coniglio arrosto: lo mangiavamo allo sfinimento, perché c’era praticamente ogni domenica. Io e mio cugino dormivamo a casa dei nonni, quando ci svegliavamo il coniglio stava già cuocendo e noi andavamo a intingere un pezzo di pane nel brodo che si formava nella pentola: quel boccone di pane con il vino bianco, il grasso e quei profumi per me è il “boccone assoluto”. In famiglia, poi, i pranzi della domenica e delle feste erano una sorta di celebrazione, quindi per me il cibo ha sempre rappresentato lo stare insieme in momenti di gioia, l’essere felici.
È vero che sei stato uno dei primi in assoluto a iscriversi all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo?
Mi sono iscritto il 4 ottobre 2004, ma avevo deciso di farlo quando l’università ancora non esisteva, era solo un progetto. Inizialmente io volevo fare il cuoco, ma mia madre si era opposta a farmi frequentare l’Istituto Alberghiero: la considerava una scuola dignitosissima ma troppo specifica. Ero comunque andato a lavorare in un ristorante, “Il Volto”, a Iseo, e dopo alcuni anni ho confessato allo chef Vittorio Fusari che avrei voluto fare il suo mestiere. Lui mi rispose: “Tu il cuoco non lo farai mai. Non perché non sia capace di cucinare, ma perché potresti mettere meglio la tua curiosità al servizio di altro”. Nel frattempo, appunto, Slow Food stava aprendo a Pollenzo la sua università e ho capito che sarebbe stato il posto giusto per me.
Quando hai assaggiato la prima birra artigianale e hai deciso di seguire questo mondo?
Era l’autunno del 2004, ed era proprio una Baladin, la Super, la birra da cui comincia anche il racconto di Beer Revolution. Quell’assaggio fu una svolta. A Natale portai a casa, come regali, bottiglie di Baladin e il cioccolato di un artigiano piemontese, Guido Gobino, per farle assaggiare ai miei amici. Dissi: “Ho scoperto che birra e cioccolato possono essere molto diversi da quelli che siamo abituati a pensare”. Non piacquero a nessuno, né l’una né l’altra. La birra, poi, è rimasta a lungo in sottofondo: non mi interessava particolarmente, io avevo il cibo in mente. Nel 2008 ho fatto uno stage da Slow Food Editore, dove stavano curando la prima edizione della Guida alle birre d’Italia: io, con un po’ di delusione, mi sono ritrovato a occuparmene, ma piano piano ho scoperto che mi appassiona. Sono diventato, così, molto amico di Luca Giaccone, il curatore della Guida, e con lui, che ha una grande competenza, ho iniziato a degustare a farla diventare una passione.
Qual è la birra artigianale più buona che tu abbia mai assaggiato?
Non so se è proprio la più buona, ma è sicuramente una birra a cui sono molto legato per una storia intima. È la Palo Santo, molto strutturata, affinata in botti di legno aromatico del Paraguay con parecchi gradi alcolici. La storia è una storia d’amore: mi trovavo negli Stati Uniti per uno stage con l’Università, io mi ero follemente innamorato di quella che oggi è mia moglie, ma a lei non piaceva la birra. Ho passato, quindi, i successivi tre mesi che abbiamo trascorso negli Stati Uniti a cercare una birra che le potesse piacere. Tutte le sere ne assaggiavo una diversa, finché, alla disperata, trovo questa Palo Santo, l’ultima birra che mi aspettavo potesse piacerle. Lei, invece, finalmente mi ha detto: “Questa è buona!”. Ora capite perché né io né lei possiamo più farne a meno.
Ascoltate Beer Revolution, il nuovo podcast di Eugenio Signoroni, prodotto da Piano P con Birra Baladin.