La trascrizione completa del primo episodio di “Benzina sul fuoco“, dal titolo “Il petrolio è dappertutto“.
***
MARCO GRASSO: Cominciamo con un esercizio semplicissimo.
Senza togliere le cuffiette dalle orecchie, aprite il vostro armadio e tirate fuori una T-shirt bianca. Ne avrete di sicuro una nel guardaroba!
Ecco, non ci avrete mai fatto caso, ma anche quella maglietta – che magari vi ricorda una vacanza di qualche anno fa o l’ultima volta in cui avete fatto acquisti prima della pandemia – è un prodotto del petrolio, sia pure indiretto.
Pensate prima di tutto a come viene prodotta. Il cotone viene piantato, coltivato e raccolto in Mississippi con sostanze chimiche derivate dal petrolio e macchinari alimentati dal petrolio. Poi viene inviato in Indonesia per essere filato, con navi che si muovono sempre grazie al petrolio. Il filato viene caricato su altre navi che lo portano con lo stesso sistema alle manifatture sparse in Asia meridionale e in America Latina. Infine, l’industria globale delle spedizioni porta la vostra maglietta finita nel negozio vicino a casa, illuminato, a sua volta, dall’energia prodotta bruciando petrolio.
Il petrolio è dappertutto. Nei vestiti, nei mobili, nei computer, negli smartphone, nel dentifricio, nei rossetti, nelle medicine. Ovunque! È la fonte primaria di energia, il principale carburante dell’economia globale – con effetti drammatici sul clima – e la risorsa più importante del mondo. Una risorsa, peraltro, nelle mani di una manciata di compagnie petrolifere: il 71% delle emissioni cumulate di gas serra emesse in tutto il mondo dal 1988 al 2015 dipende da appena un centinaio di compagnie, e quasi tutte sono società petrolifere.
Questo podcast in cinque episodi parlerà proprio di questo: della centralità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici, della responsabilità che le compagnie di questo settore hanno, e del perché finora nessuno ha chiesto loro i danni per quanto causato. Le compagnie petrolifere sono l’elefante nella stanza, una verità evidente a tutti ma ignorata da quasi tutti: sono le principali responsabili della crisi climatica in corso, eppure non sono coinvolte negli sforzi globali per combattere questa crisi, non hanno obblighi particolari. Ne parleremo con accademici, giornalisti, esperti del settore e attivisti, e vi daremo un po’ di numeri – non troppi, quelli più significativi, promesso – e di evidenze scientifiche.
Io mi chiamo Marco Grasso, sono professore all’Università Bicocca di Milano e mi occupo da più di vent’anni degli aspetti sociali, politici ed economici del clima.
Perché questo podcast? Beh, dopo anni di conferenze internazionali, di congressi accademici, di pubblicazioni in riviste scientifiche, sento la necessità di parlare a un pubblico più ampio per far sapere che anche l’industria petrolifera deve rispondere a quell’elementare concetto morale che insegniamo ai nostri figli, “chi rompe, paga”.
La mia compagna di viaggio e co-autrice qui sarà Sabina Zambon, con cui ho scritto un po’ di cose sulla questione. Sabina – che nonostante quel cognome italianissimo, è di Londra – oltre a conoscere molto bene l’argomento, ha una straordinaria capacità di raccontare delle storie affascinanti su di esso, e quindi renderà questo podcast molto più ricco e vivace.
[SIGLA INTRO]
MARCO GRASSO: Un paio d’anni fa, abbiamo visto una mostra fotografica che ci ha molto colpito. Il fotografo era un valdostano Stefano Torrione, specializzato in reportage geografici ed etnografici.
MARCO GRASSO: Quella mostra è stata accompagnata da un libro con la prefazione di Paolo Cognetti dal titolo “Grande Guerra Bianca”
MARCO GRASSO: Le nevi e i ghiacci delle nostre Alpi ci raccontano storie di profondo cambiamento del clima, simili a quelle fotografate da Stefano Torrione.
SABINA ZAMBON: Delle 290 stazioni sciistiche italiane, 197 sono pienamente funzionanti sulle Alpi italiane. Ma sono comunque 200 in meno rispetto agli Anni 60 e 70, gli anni del boom delle vacanze invernali e dell’abbondanza di neve. E il motivo è semplice: la neve si sta sciogliendo.
Le temperature medie delle Alpi sono aumentate di 2 gradi Celsius nel ventesimo secolo, mentre in media l’aumento nell’emisfero settentrionale del pianeta è stato di circa un grado Celsius. In futuro potrebbe andare ancora peggio. Nella regione alpina la cosiddetta copertura nevosa affidabile, cioè almeno 30 centimetri di neve per 100 giorni all’anno, attualmente si trova a 1500 metri d’altezza. Con un aumento di un grado, il limite si alzerebbe a 1650 metri; con addirittura due gradi in più bisognerebbe salire a 1800 m per trovare 30 centimetri di neve per almeno 100 giorni all’anno. In altre parole, se la temperatura aumenterà, molte stazioni sciistiche delle Alpi non avranno più neve per lavorare come oggi.
Secondo uno studio recente, negli Anni 90 il nostro pianeta ha perso, nel complesso, circa 800 miliardi di tonnellate di ghiaccio ogni anno. Da allora la cifra è salita a circa 1.2 trilioni di tonnellate, cioè oltre mille miliardi di tonnellate, per un totale di 28 trilioni di tonnellate di ghiaccio scomparso tra il 1994 e il 2017.
MARCO GRASSO: Il problema, però, non riguarda solo le montagne. Anzi. Quella è solo la punta dell’iceberg, quella forse più visibile, nel vero senso della parola. C’è tutta una parte che, come al solito, non si vede.
I cambiamenti climatici mettono a rischio, infatti, sia la salute umana sia la sicurezza alimentare in maniera particolare in Africa e in Asia, i continenti con la popolazione giovanile più numerosa. Come indicato dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, un riscaldamento globale di due gradi esporrebbe a rischio di denutrizione oltre metà della popolazione africana. L’OMS, l’Organizzazione mondiale della Sanità, ha avvertito che lo stato di salute di milioni di persone potrebbe essere minacciato da un aumento della malaria, delle malattie che si sviluppano nell’acqua e della malnutrizione. Tutto questo avrà anche un impatto sulle migrazioni umane: molto probabilmente assisteremo nei prossimi decenni a un brusco aumento del numero dei cosiddetti migranti climatici.
SABINA ZAMBON: Ma per capire veramente cosa vogliano dire due gradi in più abbiamo bisogno di un minimo di contesto storico.
MARCO GRASSO: Il clima terrestre, in realtà, ha sempre avuto grandi fluttuazioni, a partire dalla formazione del pianeta, quattro miliardi e mezzo di anni fa. Il clima ha oscillato tra periodi caldi e glaciazioni; questi cicli sono sempre durati decine di migliaia o addirittura milioni di anni. Dalla fine del XVIII secolo, invece, le temperature sono aumentate più velocemente che in qualsiasi altra epoca.
La scienza concorda nel sostenere che la principale causa dei cambiamenti climatici è la combustione di combustibili fossili. Il petrolio, il gas naturale, il carbone rilasciano gas a effetto serra nell’atmosfera, soprattutto anidride carbonica e metano.
SABINA ZAMBON: Anche altre attività umane, come l’agricoltura e la deforestazione, contribuiscono al rilascio di questi gas, ma molto meno dei combustibili fossili. Questi gas trattengono il calore nell’atmosfera, e questo è il famoso effetto serra, giusto?
MARCO GRASSO : Esatto, e senza l’effetto serra, la temperatura media del pianeta sarebbe di -18 gradi centigradi. Per darvi un’idea, nel periodo preindustriale, cioè fino al XVIII secolo (come dicevo poco fa), la concentrazione di CO2, di anidride carbonica, nell’atmosfera era di 280 parti per milione e la temperatura media del pianeta era di circa +15 gradi centigradi. Oggi, nonostante gli impegni presi dai vari governi, il livello di CO2 nell’atmosfera continua a crescere e nel maggio del 2021 ha raggiunto il picco record di 419 ppm, quasi il doppio rispetto al livello pre-industriale. Secondo i paleoclimatologi, è il livello più alto da oltre 4 milioni di anni a questa parte, cioè ben prima dell’inizio della storia umana. Stiamo parlando del Pliocene: in quell’era geologica, la temperatura era di circa 3 gradi e mezzo superiore a quella pre-industriale.
SABINA ZAMBON Il problema è che se non si riuscisse a correggere la rotta attuale, potremmo andare verso le temperature del Pliocene, appunto. Con quali conseguenze per il mondo? Beh, quattro milioni di anni fa il livello dei mari era più alto di 25 metri rispetto a oggi; la Florida, il canale di Panama e New York erano sott’acqua; della penisola italiana era emersa solo una lingua di terra che finiva in Toscana.
MARCO GRASSO : L’impatto principale dei cambiamenti climatici consiste quindi nell’aumento della temperatura globale del pianeta – di 1,1 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale. Il decennio 2010-2020, in particolare, è stato un periodo di caldo eccezionale su tutta la Terra. I sei anni più caldi della storia umana sono tutti successivi al 2015; l’estate del 2021 è stata la più calda di sempre sia in Europa che negli Stati Uniti. Se l’attuale tendenza di riscaldamento proseguisse, le temperature potrebbero aumentare fra i 3 e i 5 gradi entro la fine di questo secolo.
SABINA ZAMBON Insomma, gli effetti sarebbero potenzialmente disastrosi. Ma perché succede tutto questo?
MARCO GRASSO : Perché abbiamo bruciato, e continuiamo a bruciare, troppo petrolio. Eppure, c’è chi ha negato, e continua a farlo, l’esistenza di questo rapporto di causa-effetto. Stella Levantesi è una giornalista e fotografa, ha scritto un libro intitolato I bugiardi del clima, in cui parla proprio di questo: il negazionismo climatico.
STELLA LEVANTESI: Da più di cinquant’anni, ormai, l’azione per il clima, soprattutto quella politica, è indietro. E sicuramente questo è in parte riconducibile agli sforzi negazionisti. È importante comprendere che per negazionismo non si intende solo chi crede che il cambiamento climatico non esiste. Questa è un’argomentazione ormai superata: anche i negazionisti sanno che non sarebbe una strategia vincente. Oggi, nel bacino del negazionismo confluiscono strategie molto più subdole e complesse da riconoscere. L’obiettivo finale è comunque lo stesso: quello di procrastinare per mantenere il proprio business as usual, il proprio profitto. Il greenwashing, per esempio, è tra queste strategie, ma ce ne sono altre, come reindirizzare l’attenzione del problema sulla responsabilità individuale. Questa è una strategia che è stata utilizzata per decenni, tanto che, spesso, nemmeno ce ne rendiamo conto. Il negazionismo è stato efficace perché ha trasformato un fenomeno scientifico in un tema di propaganda politica, e così l’ha reso dubitabile e contestabile.
MARCO GRASSO : I cambiamenti climatici, purtroppo, non sono reversibili. Però, possiamo attenuarne gli effetti e adattarci alle loro conseguenze. Le azioni di mitigazione mirano a ridurre il quantitativo di emissioni rilasciate nell’atmosfera, per esempio attraverso lo sviluppo di energie pulite e l’aumento dell’estensione delle foreste. Una mitigazione efficace richiede interventi drastici in settori chiave: i trasporti, l’energia, l’industria, l’edilizia residenziale, la gestione dei rifiuti, l’agricoltura.
Adattarsi ai cambiamenti climatici, invece, significa prepararsi agli impatti che possono avere e rendere le nostre società meno vulnerabili. In che modo? Utilizzando in maniera più efficiente le risorse idriche, modificando le pratiche agricole e forestali, garantendo che gli edifici e le infrastrutture siano in grado di resistere alle future condizioni climatiche e agli eventi estremi.
SABINA ZAMBON I cambiamenti climatici provocano anche enormi perdite economiche che sono già sotto i nostri occhi, e lo saranno sempre più in futuro. L’acqua alta a Venezia del novembre 2019, per esempio, ha fatto danni per un miliardo di euro. Gli incendi straordinari che nel gennaio del 2020 hanno devastato l’Australia sono costati 100 miliardi di dollari all’economia del Paese, con effetti pesantissimi sul Prodotto interno lordo. L’uragano Maria, che nel 2017 si è abbattuto sull’isola di Dominica, ha causato danni pari al 224% del Pil dell’isola. L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma credo che già questi numeri diano un’idea chiara del costo economico della crisi climatica. Il punto è: che cosa si può fare per mitigare la situazione, e cosa succederà se invece tutto continuasse come ora. Perché in realtà, ancora adesso, in Italia, i negazionisti del clima abbondano. Lo racconta bene nel suo libro Stella Levantesi.
STELLA LEVANTESI: Il negazionismo esiste anche in Italia. È meno riconoscibile rispetto al negazionismo statunitense, perché è semplicemente meno istituzionalizzato: riconoscerlo è più difficile, ma è comunque presente, nella politica così come in altre sfere. Uno dei grandi problemi dell’Italia, per esempio, è il greenwashing, presente sia a livello politico che a livello comunicativo con le aziende: la storia che il gas naturale può essere un carburante ponte per la transizione ecologica, ma questo è soltanto un esempio. Un altro problema che esiste in Italia riguarda l’aspetto comunicativo e mediatico: spesso alcune testate danno spazio a prospettive negazioniste come se fossero semplicemente espressioni da un punto di vista diverso sul tema. Il cambiamento climatico non è un’opinione: è un fenomeno osservato a livello scientifico ed è misurabile empiricamente. Questa dinamica, quindi, è molto poco costruttiva, ed è un po’ come se, quando si parlasse della Terra, si scegliesse di includere anche la prospettiva “terrapiattista”.
MARCO GRASSO : L’obiettivo dei vari governi è di mantenere l’aumento delle temperature sotto i 2 gradi alla fine di questo secolo, e cercare magari di arrivare a 1 grado e mezzo. A sei anni dell’accordo di Parigi del 2015, però, tutti i climatologi concordano nell’affermare che nessuno dei due verrà centrato. Nel frattempo, le stime delle conseguenze economiche della crisi climatica sono in crescita: nel settembre del 2019, la Global Commission on Adaptation, una commissione dell’ONU, ha concluso che per limitarle al massimo sarebbero necessari investimenti per 1,8 trilioni di dollari entro il 2030 – l’equivalente, più o meno, di tutto il Pil italiano. Questi soldi, ha detto l’Onu, andrebbero destinati a cinque categorie di interventi: sistemi per la segnalazione di rischi climatici, infrastrutture, aridocoltura, protezione delle mangrovie e gestione dei sistemi idrici. Se non si interverrà, i danni potrebbero più che triplicarsi, arrivando a 7,1 trilioni di dollari.
Affermazioni simili sono sostenute ormai da tutti gli organismi internazionali. L’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha valutato per esempio gli effetti economici che potrà avere l’innalzamento dei mari entro il 2070. Città come New York, Londra, Amsterdam, Mumbai, Hong Kong e Venezia rischiano di cambiare profondamente volto nel giro di 50 anni, se nulla verrà fatto per proteggerle dall’acqua alta: un patrimonio immobiliare da 35 trilioni di dollari che rischia di andare perduto. E se ancora avessimo dei dubbi, c’è un report allarmante di JP Morgan, una delle principale banche d’affari del mondo, quindi non proprio un covo di facinorosi ambientalisti: “Non possiamo escludere esiti catastrofici per l’umanità”, scrivono i suoi analisti.
SABINA ZAMBON: Ma se c’è chi continua a negare, allora, chi ne è responsabile?
STELLA LEVANTESI: Le compagnie di combustibili fossili sanno del problema già dagli Anni 70 e 80. Avevano scienziati interni che avevano osservato in maniera estremamente accurata il legame tra l’attività delle compagnie e l’aumento delle emissioni, e il conseguente aumento della temperatura. Al di fuori del mondo scientifico, queste compagnie sono state tra le prime a saperlo e poi hanno fatto di tutto per nascondere questo legame mettendo in atto una vera e propria campagna di disinformazione sul clima, durata decenni. L’obiettivo era ostacolare, e poi ritardare il più possibile, le politiche climatiche. E lo hanno fatto attraverso finanziamenti alle campagne politiche e ai politici, attraverso strategie di comunicazione e manipolazione mediatica, e attraverso la propaganda.
MARCO GRASSO : Fornendo indiscriminatamente i loro prodotti all’economia globale, le compagnie petrolifere sono il cuore pulsante dell’attuale sistema socio-economico ad alta intensità di carbonio. Per questo, sarebbe logico che fossero al centro del dibattito politico su cosa fare. E invece, vengono sostanzialmente ignorate – sono l’elefante nella stanza, come accennavo all’inizio. Al posto loro, sono gli Stati i principali soggetti coinvolti nel trovare soluzioni ai cambiamenti climatici. Poi, altri attori, solitamente considerati secondari: la società civile, gli individui, le autorità politiche subnazionali, le comunità locali, parti del settore privato, le istituzioni internazionali.
Incredibile, vero? Pensate a quanto le compagnie petrolifere hanno contribuito a creare il problema, a negarlo e a opporsi alle possibili soluzioni. Pensate al loro potere, alla loro ricchezza, ai benefici di cui hanno goduto. Considerarle alla stregua di attori secondari nella lotta ai cambiamenti climatici è assurdo, nel migliore dei casi, se non proprio criminale.
Certo, queste compagnie sono soggette ai limiti di emissione imposti dalle autorità politiche nazionali e subnazionali, e sempre più spesso dichiarano volontariamente le proprie emissioni di gas serra e definiscono strategie di abbattimento. Tuttavia, data la natura del loro business, questo non è sufficiente. Tanto più per il modo con il quale hanno imposto a ciascuno di noi una vera e propria dipendenza dai combustibili fossili. Ricordate l’esercizio che vi ho fatto fare all’inizio con la T-shirt bianca? Ecco, oggi ci sembra impossibile vivere senza petrolio.
DELATIN RODRIGUES: Una persona, per esempio, può ritenere che le sue scelte alimentari dipendano solo dalla sua decisione individuale, ma questo è estremamente limitato.
SABINA ZAMBON: Daniel Delatin Rodrigues è un dottorando di Sociologia all’Università Bicocca di Milano. Segue da tempo l’evoluzione dei gruppi di attivisti climatici.
DELATIN RODRIGUES: Queste scelte sono fatte all’interno di catene alimentari generate dai combustibili fossili, ma anche dalla deforestazione e dallo sfruttamento del lavoro effettuato in territori lontani o vicini. La catena, quindi, non è visibile, e questa invisibilità produce la percezione che le cose, in realtà, non siano così male, e che possiamo continuare ad andare avanti senza paura. Quindi possiamo dire che le nostre abitudini sono prodotte e riprodotte all’interno di connessioni molto ben definite di estrattivismi e, di conseguenza, di emissioni climalteranti.
MARCO GRASSO : Il riconoscimento del ruolo prominente delle compagnie petrolifere nel causare i cambiamenti climatici non implica, ovviamente, che esse siano gli unici soggetti responsabili. Ce ne sono altri, primi fra tutti gli Stati. I governi nazionali dovrebbero fornire il quadro legislativo e politico appropriato per garantire che le compagnie petrolifere si comportino conformemente alla propria responsabilità, ma spesso non lo hanno fatto. Il punto è che i combustibili fossili dovrebbero essere considerati come un prodotto dannoso, il cui uso ha conseguenze negative sulla salute, la vita e il benessere di tutti gli abitanti della Terra. Come è già successo in passato per le industrie che trattavano prodotti come il tabacco, l’amianto e il piombo – prodotti un tempo ammissibili, ma in seguito banditi sulla base di solide prove scientifiche – è ora di riconoscere non solo il ruolo dell’industria del petrolio, ma le responsabilità morali e politiche di chi ha reso possibile tutto questo. È ciò che i movimenti e gli attivisti che si battono per scongiurare la crisi climatica affermano da tempo.
DELATIN RODRIGUES: Ciò che potrebbe essere immediato, secondo loro, è l’interruzione dell’esplorazione di nuove aree, la non apertura di nuovi campi di estrazione. Quello che chiedono è di orientare questo investimento verso la ricerca e sviluppo di altre fonti di energia. Questo dovrebbe e potrebbe essere fermato immediatamente. Di fare pressione anche sulle grandi banche a non investire più soldi, sui fondi di investimenti di ritirare i soldi delle industrie fossili – di solito, questo argomento per sospendere l’uso come qualcosa di immediato è usato in modo denigratorio. Chiedono la sospensione immediata della produzione di dispositivi che utilizzano combustibili fossili come fonti di energia: per esempio le macchine, ancora, o di infrastrutture di estrazione e distribuzione.
SABINA ZAMBON: Eppure, fino alla drammatica evoluzione degli ultimi 150 anni, il petrolio aveva ben altre funzioni. Nell’antichità era considerato una curiosità miracolosa, un dono curativo che affiorava dal sottosuolo, se e quando gli dei lo desideravano. Aristotele, il grande filosofo greco del quarto secolo avanti Cristo, credeva che il petrolio che trasudava dai terreni dell’Agrigentino fosse la panacea per il trattamento e la guarigione delle malattie, dei problemi della pelle e dei dolori reumatici. Serviva persino per curare i problemi respiratori, cosa che suona non poco ironica, visto tutto quello che sappiamo oggi.
Un autorevole libro di medicina del diciassettesimo secolo, di Bartolomeo Bertacchi, usa una serie di appellativi per il greggio, che farebbero impazzire di invidia i pubblicitari di Big Oil, le grandi compagnie petrolifere di oggi: non solo olio di sasso, ma Olio Philosophorum, Olio Divino, Olio di Sapienza, Olio Benedetto, Olio Santo, addirittura Olio di Perfetto Magistero. Un’intera industria del benessere, insomma. Domenico Macaluso, direttore scientifico del WWF Sicilia, ha raccontato che già nel sedicesimo secolo, a Bivona, affiorava talmente tanto greggio da riversarsi nei corsi d’acqua, fino a raggiungere la costa sud-occidentale, dove navi provenienti da ogni angolo del Mediterraneo erano pronte ad assorbirlo dalla superficie dell’acqua. Utilizzavano spugne che poi, a bordo, “spremevano” in vasi.
MARCO GRASSO : Ma le vecchie usanze, si sa, non durano, e l’era moderna del petrolio siciliano, con la sua profonda trasformazione, comincia nel 1929. Il chimico Mario Lupo portò dei campioni di greggio di Bronte – che noi oggi conosciamo come la capitale del pistacchio – ad analizzare al Politecnico di Milano. I risultati di quelle analisi indussero l’AGIP a utilizzare in Sicilia, per la prima volta, i metodi moderni per l’estrazione del petrolio. Progetti di trivellazione ed esplorazione cominciarono a spuntare in varie località dell’isola, fino a una vera e propria escalation, negli Anni 50, nella Sicilia Orientale, con l’inaugurazione della prima raffineria ad Augusta.
La Sicilia ha il record di aree naturali protette, con cinque parchi naturali, sei aree marine protette e settantadue riserve naturali. Ma proprio lì, al largo di Gela, nel 1959 venne costruita la prima piattaforma petrolifera offshore d’Europa. Il petrolio veniva portato a riva per essere trattato nell’enorme impianto della città, con una capacità di raffinazione di 100.000 barili al giorno. Costruito sulla costa, venne accolto con sentimenti contrastanti dagli abitanti di Gela, in prevalenza contadini. Da un lato, creò parecchi posti di lavoro e stimolò l’economia locale; dall’altro, l’ENI, che aveva assorbito l’Agip, non trovando personale adeguatamente preparato, dovette far arrivare dal Nord i propri tecnici, strapagandoli rispetto alla media del territorio, e creando così una società a due velocità e con due gruppi incapaci di amalgamarsi.
SABINA ZAMBON: Già allora, però, l’industria petrolifera dimostrò di saper utilizzare la comunicazione per manipolare le emozioni collettive. L’ENI, infatti, per conquistare il consenso del pubblico siciliano decise di produrre un film autocelebrativo, precursore di quello che oggi viene chiamato infomercial. Ingaggiò Giuseppe Ferrara, un regista che sarebbe poi diventato famoso per alcune pellicole sul degrado della cultura e della politica italiana, come Il caso Moro. Per Eni, nel 1964, Ferrara realizzò un film in due parti, con la voce narrante del grande scrittore Leonardo Sciascia: un ottimo colpo di immagine.
Nel film viene descritta la costruzione della gigantesca raffineria petrolchimica e della piattaforma offshore di Gela, con le immagini della graduale trasformazione di un paesaggio incontaminato e arido. Distese di cavi, una vista aerea del pontile di acciaio e cemento che si estende per 3 chilometri sul mare, come se cercasse di allungare una mano sulla costa dell’Africa. Il cielo azzurro intenso, a malapena una nuvola, solo una macchia prodotta dalle emissioni delle ciminiere. La voce di Sciascia risuona di stupore ammirato mentre parla dei 4.000 chilometri di tubature metalliche, dei 3.000 chilometri di cavi elettrici, tralicci e ciminiere dipinti di un patriottico verde, bianco e rosso. Un’orgogliosa palma solitaria resiste, mentre i giganteschi impianti le si stringono intorno. Trenta milioni di ore di lavoro per creare questo paese delle meraviglie del futuro, che enfatizza, con un redivivo slancio futurista, la tecnologia, il dinamismo, la velocità, il paesaggio industrializzato. Il tutto sottolineato da una musica grandiosa, scandita da un crescendo di archi.
Il film si chiude con un cantastorie che intona una lode alla scienza, quella scienza che le compagnie petrolifere avrebbero fatto di tutto per negare. “Vita alla scienza,” intona, “dalla Sicilia ci porta fortuna.…”. Gli sguardi della gente del paese seguono, incantati, il cantastorie. Così come l’industria petrolifera terrà sotto l’incanto del dio progresso, del dio denaro, il mondo intero.
MARCO GRASSO : Eh sì, “Vita alla scienza”… Solo alcuni anni dopo avremmo cominciato a capire perché le parole di quel cantastorie suonano, diciamo così, ironiche. Tanto più oggi, che sappiamo come sono andate le cose. Questa serie di podcast sarà un viaggio dentro queste “cose”. Partendo dall’inizio, da quando la scienza ha cominciato a dire una verità, e le compagnie petrolifere un’altra: dall’inizio della responsabilità.
Ci sentiamo presto con il prossimo episodio di Benzina sul fuoco.
[SIGLA OUTRO]