1. Uno strano bar in cima alle Langhe
Immaginate il tipico borgo di provincia – un piccolo villaggio con le vie strette, sopra una collina. Questo è Piozzo: poco più di 900 abitanti nel Cuneese, un castellozzo e ben tredici chiese. E proprio accanto a una di queste, la chiesa di Santo Stefano, nel 1986 un ragazzo di appena 22 anni e la sua compagna aprono un locale originalissimo che è destinato a sconvolgere la tranquillità di quel luogo e le abitudini di tanti italiani.
Fino a quel momento la birra in Italia era una “bionda” chiara e insapore, considerata un’alternativa all’acqua o alle bibite gassate. Un buon modo per dissetarsi d’estate, insomma. Nel pub di Piozzo, invece, si cominciano a servire bitter luppolate inglesi, scure stout irlandesi e ale belghe profumatissime e speziate. Una vera rivoluzione, che avviene sotto un tendone da circo che copre il cortile interno di una vecchia casa, dove all’inizio del 2022 i Marlene Kuntz hanno perfino registrato alcuni brani dell’ultimo progetto musicale Karma Clima.
Quel ragazzo di 22 anni, però, non si accontenta di aver cambiato la fama del suo paese: vuole che a cambiare sia tutta la birra italiana.
A ogni episodio di Beer Revolution sarà associata la degustazione di una birra, condotta da Eugenio Signoroni. Inizialmente potrete ascoltarla sul sito di Baladin, poi dal lunedì successivo sarà disponibile in tutte le app per i podcast. Si comincia con Super.
Di seguito la trascrizione integrale del primo episodio di Beer Revolution.
[EUGENIO SIGNORONI]
Non so a voi, ma a me dire MILLE dà sempre molta soddisfazione. È un numero che mi dà gioia. Sembra che racconti un successo, il conseguimento del massimo risultato auspicabile. E a ben guardare è così. Pensate al modo in cui ringraziamo o a quello che usiamo per dire che abbiamo ancora un sacco di cose da fare o che siamo davvero super entusiasti. Per noi italiani, insomma, è un numero prezioso, un numero esagerato. Esprime un sentimento che va oltre le nostre aspettative. MILLE…
Ecco, quando si parla di birra, mille non è più solo un modo di dire, ma un valore molto concreto. Sono più di mille, infatti, i birrifici artigianali attivi oggi in Italia. È un numero molto alto, che colloca il nostro Paese in cima alle classifiche europee per numero di produttori davanti a nazioni come il Belgio, l’Olanda o la Repubblica Ceca che con questa bevanda hanno certamente una storia più antica e significativa. Noi, quella storia non l’abbiamo, eppure ormai non c’è territorio che non vanti almeno un artigiano della birra più o meno strutturato.
La birra artigianale è diventata una realtà talmente diffusa che la si può trovare praticamente ovunque: nel piccolo bar di provincia, al supermercato, come nel ristorante stellato. Fa parte, ormai, del nostro costume, del nostro modo di mangiare, di bere e di stare assieme, e anzi ha contribuito a cambiarlo.
Eppure non è stato sempre così. E con “sempre” non intendo secoli. Solo trent’anni fa (io ero nato da poco…) per gli italiani la birra era una bevanda aliena, lontana dalle consuetudini quotidiane, qualcosa di straniero! Basta leggere i nomi di molte etichette, anche italiane, che si consumavano a quel tempo – Wuhrer, Dreher, Metzger – per avere una chiarissima immagine di quanto la birra fosse un prodotto che arrivava da fuori, e fuori restava dal nostro immaginario comune.
E allora cos’è successo, nel frattempo? Come si è arrivati a questo cambiamento così radicale di scenario? È quello che vi racconterò nei sei episodi di questo podcast, in cui metterò insieme cibo e cultura, luppoli, startup e un tocco di genio tipicamente italiano. Partendo da un territorio famoso per il vino, le Langhe, e da una storia che ha fatto il giro del mondo.
Ah, piccolo particolare, direi gustoso: ogni episodio sarà dedicato o ispirato da una birra. Alla fine, la degusteremo insieme a chi, quella birra, l’ha pensata, prodotta e lanciata: tra pochissimo scoprirete chi è.
Allora, cominciamo. Io sono Eugenio Signoroni, e questo è Beerevolution, una nuova produzione di Piano P con Birra Baladin.
[SIGLA INTRO]
[EUGENIO SIGNORONI]
1977. A Catanzaro si apre il processo per la strage di Piazza Fontana, avvenuta otto anni prima a Milano; Jimmy Carter viene eletto presidente degli Stati Uniti; Luciano Lama, segretario generale della Cgil, viene contestato alla Sapienza di Roma da gruppi di autonomi e indiani metropolitani; mentre Francesco Moser si laurea campione del mondo di ciclismo su strada.
Proprio in quell’anno, in America esce un libro che non è certo destinato a scalare le classifiche di vendita. Si chiama The World Guide to Beer. A scriverlo è un bonario ragazzo di 35 anni con la passione per il malto, nato in un piccolo paese a nordovest di Leeds, nel centro dell’Inghilterra. Il suo nome è Michael Jackson, proprio come il cantante, e probabilmente non immagina che quella guida, che per la prima volta racconta la birra come oggetto culturale, concentrandosi sulla storia, gli ingredienti, i profumi e i sapori di ogni prodotto, sarà determinante per la rivoluzione artigiana che muove i primi passi proprio in quegli anni.
Quando la guida di Jackson viene pubblicata, infatti, ovunque nel mondo la birra è una bevanda piuttosto standardizzata, prodotta da un numero ridottissimo di aziende che dal dopoguerra in avanti sono diventate grandi inglobando tante industrie locali, chiudendole o snaturandole. Il lavoro di Michael va nella direzione esattamente opposta. Come un esploratore, il nostro giovane inglese si mette a cercare in ogni nazione le tipologie di birra tradizionali ancora in vita: le assaggia, le racconta, ne descrive la genesi e l’evoluzione, il ruolo sociale e quello gastronomico. Il risultato è una rassegna multiforme e multicolore, molto lontana dall’idea monotematica di birra chiara e ben gassata che domina la scena commerciale globale.
C’è anche l’Italia, in quella rassegna, ma in pochissime righe: quattro birrifici in tutto, dispersi nel capitolo dedicato all’Europa meridionale.
[KUASKA]
Quattro etichette, quattro colluttori dell’epoca: la Moretti, la Sans Souci, la Messina e la Falcon, che è una birra di Messina anche lei. Si vede che ha ricevuto una telefonata per darne due di Messina. E quindi poche righe, poi passavano a Cipro, Spagna, Portogallo, diciamo quelli che non contavano
[EUGENIO SIGNORONI]
Lorenzo Dabove, detto Kuaska, oggi è uno dei più importanti comunicatori della birra nel mondo. Alla fine degli Anni 70, dice Kuaska, in Italia la birra era tutto fuorché un prodotto interessante.
[KUASKA]
Tenete conto che nel passato noi abbiamo un retaggio storico dei birrifici storici che erano indipendenti, quelli che poi i marchi sono famosi, sono stati poi acquistati ma in realtà non è vero che dei nostri birrai artigianali l’Italia non aveva una tradizione. L’aveva però diversa. Poi quegli anni invece sono stati anni totalmente dominati dalle Mass Market Lager, veniva la birra identificata appunto con la parola birra mentre io dico la birra non esiste proprio. Con l’avvento poi della birra artigianale italiana e il consumatore trovava birre con aromi e gusti interessanti intensi e da poter anche sviluppare un po’ la propria capacità nelle percezioni grazie alle birre straniere in particolare ai belgi, le birre belghe, ma anche birre tedesche e anglosassoni. Era un periodo di birre straniere secondo me.
[EUGENIO SIGNORONI]
Gli Ottanta sono gli anni in cui la birra è considerata un’alternativa all’acqua o alle bibite gassate, un buon modo per dissetarsi in estate, insomma. O, come diceva Renzo Arbore in quegli spot diventati famosi in cui ne promuoveva il consumo, è la scelta giusta se si vuol bere qualcosa a pranzo senza preoccuparsi di ingrassare o di esagerare con l’alcol.
[SPOT ARBORE]
[EUGENIO SIGNORONI]
Del resto basta analizzare con un po’ di attenzione l’evoluzione che la birra italiana ha avuto fino agli anni Ottanta per capire come si è arrivati a questa situazione.
I principali birrifici (i Wuhrer e i Dreher che citavo all’inizio) erano stati aperti durante il diciannovesimo secolo da famiglie o da birrai giunti per lo più dalla Svizzera, dalla Francia e dall’Austria. Pur essendo di proprietà italiana, quindi, la loro produzione si ispirava alle birre tedesche: lager chiare (ma allora in pochi sapevano che si chiamassero così), semplici da bere, di basso grado alcolico, non particolarmente aromatiche o caratterizzate, spesso prodotte in alternativa alla gassosa e vendute nei suoi stessi canali.
Oltre all’aspetto produttivo, poi, ce n’è uno storico e culturale. L’Italia appartiene a quella parte di mondo in cui il clima ha consentito da sempre la coltivazione della vigna e dove, quindi, la bevanda alcolica per eccellenza è il vino, certo non la birra. A Piozzo, per esempio, un minuscolo paese del Piemonte meridionale, per secoli il vino ha rappresentato una delle principali fonti di reddito o di sostentamento. Siamo nelle Langhe, terra di Nebbiolo, Barolo e Barbaresco, una delle zone vitivinicole più rinomate del pianeta, dove la maggior parte degli abitanti possiede un piccolo appezzamento di vigna da cui ricavare un po’ di quintali di uva da conferire ai grandi vignaioli o alle cooperative, oppure quella che serve per qualche damigiana per il consumo personale.
Immaginate il tipico borgo di provincia: un piccolo villaggio con le vie strette, in cima a una collina. Caratteristico per chi ci arriva da fuori, con i suoi portici e le case basse di pietra e mattoncini rossi, ma non particolarmente eccitante per chi ci vive, e dove ogni giorno è uguale a se stesso. Ecco, questo è Piozzo: poco più di novecento abitanti in provincia di Cuneo, un piccolo castello e ben tredici chiese. E proprio accanto a una di queste, la chiesa di Santo Stefano, nel 1986, un ragazzo di appena 22 anni e la sua compagna aprono un locale destinato a cambiare la fama di questo luogo e a sconvolgerne la tranquillità: un bar che non serve vino, come qualsiasi altro della zona, ma birra; e non la solita “bionda” chiara e insapore, ma ale belghe profumatissime e speziate, bitter inglesi luppolate, e scure stout irlandesi.
[TEO MUSSO]
Un locale per giovani di birra e musica completamente stonato rispetto alla realtà culturale del posto che è a vino. Paese che aveva in quel momento 850 abitanti, 250 nei due ricoveri per anziani.
[EUGENIO SIGNORONI]
Questo è Teo Musso. Era lui quel ragazzo che aprì quello strano bar.
[TEO MUSSO]
Sicuramente è un paese contadino che viveva di cultura contadina, dove si giocava a petanca e a Belot, dove d’estate c’era una piccola vibrazione dettata dalle famiglie francesi che erano migrate in Costa Azzurra e che tornavano in paese con i figli ed era il momento in cui si vedeva un po’ di vibrazione in paese. Altrimenti un paese contadino, semplicissimo, bellissimo – questo fosse un giudizio un po’ di parte – una balconata stupenda sulle Langhe scritta come il più bel posto del mondo che si chiama l’Alba Rosa e non l’ho scritto io.
[EUGENIO SIGNORONI]
Teo è nato nel 1964, ultimo di quattro figli in una tradizionale famiglia contadina delle Langhe. Prima di appassionarsi alla birra, al punto da dedicarle un locale così fuori dagli schemi, Teo ha avuto altri grandi amori, ugualmente centrali nello sviluppo di questa nostra storia. Gli piaceva la musica, innanzitutto, la sua più fidata compagna sin dall’adolescenza, lo strumento che gli permetteva di viaggiare ed evadere, anche se solo con la mente. Adorava ascoltarla su impianti hi-fi che la riproducessero alla perfezione. Passava le giornate con amici che arrivavano ogni pomeriggio da lontano, e ogni volta più numerosi, a valutare la qualità dei suoni o a cercare stereo sempre più belli e rari.
[TEO MUSSO]
Lì parte un percorso che poi ha avuto momenti completamente diversi nell’arco della mia vita, dal quale non mi sono mai staccato, e anche con approfondimenti importanti. Passare dall’ascoltare tutto quello che erano le cose alla moda in quel momento, come anche andare a cercare ad esempio la riproduzione della voce nei sistemi audio degli anni Trenta, degli anni Quaranta, momento in cui la voce era stata molto esaltata dall’arrivo del sonoro nel cinema e quindi tanti investimenti che hanno creato un momento storico molto particolare. Nella sostanza un amore profondo per il piacere dei piccoli dettagli dell’ascolto.
[EUGENIO SIGNORONI]
E poi a Teo Musso piaceva il circo. Teo era affascinato dall’atmosfera e dall’energia che circondavano un tendone, il fatto che non stesse mai fermo nello stesso luogo, la sfida degli equilibristi alle leggi della fisica, con piroette eseguite a dieci metri da terra, pericolose e impossibili. Per lui, in particolare, il circo era quello di una compagnia francese che ogni anno faceva tappa a Piozzo. Si chiamava Bidòn, viaggiava (e viaggia tuttora) su carri trainati rigorosamente da cavalli, guidati da un personaggio di cui Teo diventò ben presto amico. Quella carovana, semplice ma dignitosa, nutrì la sua immaginazione.
[TEO MUSSO]
Eravamo nel 1984 quando appare in paese questo circo molto affascinante, guidato da François, questo omone bretone con la barba, che portava avanti dal 1976 questo circo bohémien. Arriva questo circo in paese e per me è una benedizione vera e propria perché era il modo di dimostrare alla mia compagna, che aveva scelto di abbandonare il suo percorso, la sua carriera da ballerina per venire a vivere a Piozzo con me e io mi sentivo un po’, come dire, un po’ spiazzato. In questo posto in cui non succedeva nulla invece l’arrivo di questo circo è stato meraviglioso. Poi ci siamo innamorati di questo circo e con questo circo oltre che instaurare un rapporto che continua ancora oggi con François in realtà abbiamo anche vissuto un paio di settimane di vita di estrema lentezza, di qua a Asti, spostandosi a piedi assieme a loro che è stata un’esperienza molto molto profonda, perché io dico sempre che sono un profondo irrequieto e la lentezza non è esattamente la parte della mia vita.
[EUGENIO SIGNORONI]
Negli stessi anni in cui, a Piozzo, un giovanissimo Teo Musso si appassionava a musica, circo e impianti hi-fi, nel resto d’Italia si andavano diffondendo i british pub, luoghi di aggregazione arredati con legno scuro, grandi banconi, carta da parati alle pareti e lampade di ottone. In quei pub non si mangiava, si beveva soltanto: un po’ come accadeva nelle osterie, solo che al posto del vino si beveva birra, tanta birra.
Il primo in assoluto è stato il Rose and Crown, che ha aperto a Rimini nel 1964. Poi, dodici anni dopo, è stata la volta del Fiddler’s Elbow a Roma: i primi esperimenti di successo, che portano all’esplosione degli anni Ottanta. Nuovi pub vengono aperti nelle grandi città ma anche nei paesi di provincia: sono luoghi che, oltre a far sognare per un paio d’ore di essere a Londra, a Liverpool o a Belfast, spesso diventano i primi palcoscenici per giovani gruppi musicali che per pochi soldi e qualche birra si fanno le ossa davanti a un pubblico rumoroso ed esigente.
A raccontarcelo è Cristiano Godano cantautore, frontman dei Marlene Kuntz, una delle più importanti rock band italiane: pur non essendo stato un grande frequentatore di pub – lui preferiva locali più alternativi – ne ha comunque un ricordo soprattutto legato alla musica.
[CRISTIANO GODANO]
Nel pub mi incrociavo con persone che in fondo non avevano tutta questa specificità. Il pub di per sé incarnava un’idea legata alla musica quindi io ci andavo anche per quel motivo. Lì spesso ci si poteva imbattere in concerti quindi l’atmosfera era quella anche della musica suonata live in alcuni di quei luoghi, cosa che adesso non è esattamente più tanto ricorrente, se non con i gruppi che fanno cover.
[EUGENIO SIGNORONI]
Con i pub, in Italia arrivano anche tante nuove birre. Un numero che mai si era visto prima. Sulle etichette hanno nomi che evocano antichi cavalieri inglesi o monaci belgi, e poi hanno profumi esplosivi e una miriade di colori. Sono descritte con termini, ale e lager, che significano poco o nulla per i consumatori del tempo, abituati alla birra come prodotto al singolare, rassicurante, senza nulla di particolare da raccontare o da svelare. L’incontro con questi prodotti cambia la percezione della birra per tantissime persone che magari non la amavano o semplicemente non la conoscevano. Avvenne così anche per Lorenzo “Kuaska” Dabove. Con quale birra? Lo lascio raccontare a lui.
[KUASKA]
Penso non esista più, forse c’era un demone interno a me perché io non avevo alcun legame con la birra in casa mia, nessun legame. La Alemagna era un famoso negozio di Milano, sai che noi facevamo avanti indietro dalla Liguria ma mio padre lavorava, io studiavo a Milano in esilio e questo locale era famoso per la pasticceria e poi fece un angolo di delicatessen con delle specialità della Germania, della Francia c’era il foie gras, lo champagne e dell’Inghilterra, c’erano biscotti. Fui attratto, la presi, la portai a casa – uso apposta le parole sbalgiate – la versai ed era marrone, ma pensavo fossero gialle. Poi sono andato alla seconda (poi io non giudico mai, prendo atto), la terza e la quarta. Nel frattempo scrivevo delle recensioni dei miei due poeti personali che sono Montale, guai chi me lo tocca, e Dylan Thomas che poi non sapevo che era stato un grande bevitore di birra gallese, e rimandavo a una rivista inglese del nord di Londra e mandavo anche qualche mia poesia e mandai anche due parole su questa birra in modo molto carino mi fecero “Vai avanti con le birre e lascia stare le poesie”.
[EUGENIO SIGNORONI]
Se è stata una birra inglese a fare aprire a Kuaska occhi e papille, e ad aver di fatto avviato la sua carriera di assaggiatore, per Teo Musso l’epifania è arrivata, invece, con una belga. Proprio a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, del resto, il Belgio era diventato un punto di riferimento per tanti neo appassionati di birra.
[TEO MUSSO]
Io arrivavo da questo mio avvicinamento alla birra forzato anche un po’ sofferto perché in realtà la birra non mi piaceva. Le birre che avevamo in italiano erano, posso dire così, non adolescenziali e il mio avvicinamento è stato attorno ai 16 anni. Mi ritrovo davanti a un certo punto grazie a mio zio che aveva un’apertura mentale sul cibo e sul bere molto ampia per la sua esperienza lavorativa su Monte Carlo legata al mondo della ristorazione, mi dà da assaggiare Questa chimay in tappo blu. Io mi ricordo precisamente l’esperienza perché l’esperienza1000 è stata quella di trovarmi di fronte a un’esplosione di sapori. Queste note fruttate tostate questi profumi che in realtà erano totalmente diversi da quello che era il mondo delle lager a cui eravamo abituati e che mi ha proprio aperto illuminato mi ha fatto fare un salto totale e in realtà di lì poi ho sviluppato anche quello che è stata la mia mamma birraia, la parte di impostazione iniziale che poi ho rivisto a modo mio.
[EUGENIO SIGNORONI]
Il Belgio è una nazione molto particolare da un punto di vista geo-politico. Divisa tra Fiandre – la parte a nord, dove si parla una lingua di stampo olandese – e Vallonia – il Sud, francofono e più agricolo. Ha in Bruxelles la sua capitale, città di grande fascino, cuore pulsante dell’Europa unita e custode di alcuni degli stili più antichi del mondo in fatto di birra. E proprio la varietà è la caratteristica che più di tutte distingue il Belgio dalle altre culture birrarie. Sentite cosa racconta Kuaska, che di “oro” belga è uno dei massimi esperti al mondo.
[KUASKA]
Ricordo che fui influenzato dalla frase di un giornalista che disse “La Germania è il paese della birra e il Belgio paese delle birre”. Io ci tengo molto al plurale delle birre e infatti molti credono che io abbia imparato questo mestiere, bene o male, in Belgio. No per l’amor di Dio l’ho imparato nel Regno Unito. Perché assaggiavo birre con un gap di differenza minimo, in Belgio era impossibile perché ogni villaggio, ogni paese aveva la propria birra che adesso sono anche estinte molte. Diversissime, c’è chi le aveva acide chi acetiche, chi dolci chi amare, chi forti chi deboli e il Belgio è molto, molto variegato, molto variegato.
[EUGENIO SIGNORONI]
A favorire la grande varietà di cui ci parlava Kuaska è stato anche il fatto che per lungo tempo la birra belga venisse prodotta da birrifici che comunicavano poco o niente con i propri vicini: non scambiavano informazioni, quindi, e non correvano il rischio di omologarsi. L’esempio più calzante è quello dei birrifici trappisti: oggi si trovano anche in Olanda, Stati Uniti, Inghilterra, Austria, Spagna, Francia e perfino in Italia (proprio così, ne esiste uno a Roma e si chiama Tre Fontane!), ma la loro patria d’elezione è il Belgio, appunto, dove ce ne sono cinque, su tredici in totale nel mondo. E il più grande di questi è Chimay, la cui “tappo blu” è la birra, come avete sentito, che ha letteralmente cambiato la vita del nostro Teo Musso. E di conseguenza anche la vita e il gusto di molti di noi.
[KUASKA]
La birra fatta dai monaci trappisti, deve avere tre caratteristiche per essere chiamata trappista. Il birrificio: la produzione deve essere all’interno di un chiostro, quindi di un’abbazia dei monaci benedettini cistercensi dell’ordine della trap, quelli di stretta osservanza. Pensa che si scavavano la fossa e dicevano “ricordati che devi morire” ogni volta che si incontravano. Poi non è più così. Poi la seconda importante è che la produzione è sotto il controllo dei monaci, rispettando la qualità e i criteri di produzione. E la terza è che i proventi servono per la comunità monastica, per i lavori di ristrutturazione, di manutenzione e naturalmente in beneficenza. Una beneficenza che a me è sempre piaciuta perché io credo alle beneficenze, però era sempre finalizzata, ad esempio, Chimay ospedale in India, Westmalle Chiesa in Africa. Quindi queste erano le caratteristiche per essere chiamata trappista. Ovviamente i tempi sono cambiati ma non queste regole. Il birraio che manualmente fa la birra può essere un laico e più vicino diciamo a un diacono (…), gli altri sono laici sotto il controllo dei monaci.
[EUGENIO SIGNORONI]
Con queste premesse è inevitabile che quando Teo è pronto ad aprire il suo locale a Piozzo, nel 1986, decida di dare un ruolo di primo piano al Belgio. E qualche anno più tardi, quando dovrà scegliere quale birra produrre per lanciare un proprio birrificio, per la sua Super si ispirerà proprio alle trappiste più alcoliche, delle quali la “tappo blu” è un’egregia rappresentante. Ma non corriamo troppo: di questo parleremo nel prossimo episodio. Per ora fermiamoci in quel piccolo pub, dentro una vecchia casa accanto alla chiesa di Santo Stefano. Un’assoluta scommessa, un salto nel buio, per il quale viene scelto il nome “Le Baladin”, una parola francese finita in disuso: significa “cantastorie” e con il passare degli anni si cuce alla perfezione addosso al personaggio di Teo Musso. Ancora adesso, ogni domenica riceve personalmente chi arriva da tutta Italia per un giro nel birrificio, tiene un sermone di un’ora e mezza e alla fine impartisce l’equivalente un po’ blasfemo ma molto efficace dell’eucaristia: poche gocce delle birre più complesse, affinate in vecchi botti.
Nulla, nel primo Baladin, venne lasciato al caso: dall’arredamento in stile gitano al grande tendone da circo che copre il cortile interno della casa e che negli anni è diventato un po’ simbolo del locale. Tanto che, all’inizio del 2022, proprio i Marlene Kuntz hanno registrato alcuni brani dell’ultimo album, Karma Clima, sotto quello chapiteau che avevano osservato come clienti, magari non assidui ma appassionati.
[CRISTIANO GODANO]
Io sono di Fossano, una cittadina nel centro più o meno della provincia di Cuneo ma in realtà poi la mia educazione sentimentale io l’ho tutta esperita a Bra. Bra è una cittadina verso Alba, quindi verso il centro dell’Italia e per così dire più addentro e quindi abbastanza distante da Piozzo. Piozzo però era un luogo mitico, Il Baladin era un luogo mitico perché lì si facevano un sacco di concerti. Siccome però a Bra esisteva Le Macabre, un altro locale mitico a sua volta, io andavo moltissimo lì. Le pochissime volte che sono andato a Piozzo, ho sentito un qualcosa di, lo dico con benevolenza, di più ruspante, con un’attitudine anche ad accogliere un certo tipo di musica a volte non vicino al mio. Sentivo tantissima energia lì dentro, tantissima voglia di fare questa cosa, al di là dell’idea di business di Teo, la musica per lui è stata sempre veramente molto, molto importante. Le poche volte che sono capitato lì l’ho sentita questa cosa. Quello era un tendone, era una cosa molto sui generis molto particolare.
[EUGENIO SIGNORONI]
E tornare a registrare il proprio album dopo esserci stati come avventori è stata una grande emozione.
[GODANO]
Loro ce lo hanno addobbato in una maniera così splendida che quando ci sono ritornato lì dentro avevo il ricordo del bar dove si suonava, di un posto, come ho detto prima, più ruspante forse. Poi è cresciuto evidentemente e adesso questo tendone aveva avuto il fascino quasi la dimensione circense. Non è un ambito culturale che ho mai coltivato però era magnifico ritrovarsi lì dentro in questo tendone, catapultati fuori dal mondo. Ci ritroviamo in un’atmosfera diversa. Siamo stati accolti in maniera splendida dai ragazzi di Piozzo, ce la ricorderemo per sempre questa loro accoglienza, questa voglia di aiutarci a dare il meglio di noi stessi. È stata una specie di chiusura del cerchio: non ci arrivavamo lì da ascoltatori e ci siamo arrivati da musicisti
[EUGENIO SIGNORONI]
Proprio grazie a quell’energia avvertita da Cristiano Godano, il Baladin ha un grande successo da subito. Piozzo diventa all’improvviso la meta di tanti che cercano una birra diversa dal solito, un’atmosfera unica e tanta buona musica. Teo Musso, però, non si accontenta di aver cambiato il suo paesino e avergli dato una bella sveglia: vuole che a cambiare sia la birra tutta. Questo, però, ve lo racconto la prossima volta.
Intanto, se volete saperne di più della Super, degustatela insieme a me e a Teo. Andate sul sito di Baladin, www.baladin.it: troverete un altro pezzetto di questo podcast. A presto.
[SPEAKER] Avete ascoltato “Beer Revolution. La rivoluzione italiana della birra artigianale”, un podcast di Eugenio Signoroni prodotto da Piano P con Birra Baladin. Adattamento e produzione di Carlo Annese. Editing audio e coordinamento di Giulia Pacchiarini. Montaggio di Federico Caruso.