La trascrizione completa del terzo episodio del podcast Pompei. La città viva. The complete transcrition of Pompei. La città viva third episode.
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[SPEAKER PLINIO IL GIOVANE] Una nube si formava, il cui aspetto, fra gli alberi, era vicino a quello del pino. Essa, infatti, levatasi verticalmente come un altissimo tronco, s’allargava poi a guisa di rami, probabilmente perché, sollevata grazie alla spinta di una corrente ascendente e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella, o cedendo al suo stesso peso, si allargava lentamente: a tratti bianca, a tratti nera e sporca a causa della terra e della cenere che trasportava.
A descrivere l’inizio dell’eruzione del Vesuvio come in un’istantanea ante litteram è Plinio il Giovane, in un’epistola allo storico Tacito. Lo scrittore e magistrato romano si trova in Campania insieme allo zio, Plinio il Vecchio, celebre naturalista e ammiraglio della flotta romana stanziata a Miseno, nel golfo di Pozzuoli, una trentina di chilometri a nord di Pompei.
È il 24 ottobre dell’anno 79, poco dopo l’una del pomeriggio. Come ogni giorno, Plinio il Vecchio si è svegliato presto al mattino; ha preso un bagno di sole, poi uno di acqua fredda, e dopo un pasto leggero si è ritirato nella sua camera a studiare. D’un tratto la sorella lo chiama per mostrargli quella strana nube. Plinio si fa portare i calzari e corre a guardarla da un’altura. Il fenomeno gli pare così rilevante che decide di imbarcarsi e andare a osservarlo più da vicino.
Ancora non lo sa, ma la sua vita, insieme a quella di migliaia di altre, sta per finire.
[SIGLA] Questo è Pompei. La città viva. La fine, la scoperta, la rinascita.
Il racconto di uno dei luoghi più affascinanti al mondo.
Un podcast del Parco Archeologico di Pompei, prodotto da Piano P in collaborazione con Electa. io sono Carlo Annese.
Terzo episodio. Cinquantamila volte Hiroshima
In meno di venti ore, il Vesuvio proietta in aria dieci miliardi di tonnellate di magma, vapori e gas. Scarica su Pompei una pioggia di pomici che la seppelliscono sotto una tomba alta circa tre metri. Investe la città con valanghe ustionanti di magma, ceneri e gas, i cosiddetti flussi piroclastici, che scorrono alla velocità di duecentocinquanta- trecento metri al secondo, con temperature tra i quattrocento e i seicento gradi.
In pochi attimi, il vulcano spazza via migliaia di vite umane, cancella luoghi fiorenti e modifica la conformazione della costa, con una potenza – in termini di energia meccanica e termica – pari a quella di cinquantamila bombe atomiche.
Cinquantamila volte Hiroshima.
Oggi, nei 25 Comuni vesuviani che rientrano nella cosiddetta zona rossa, la zona da evacuare se il vulcano dovesse uscire dalla fase di “dinamico riposo” in cui si trova, vivono circa 700.000 persone. Settecentomila ostaggi di una potenziale catastrofe. Ma loro, a cedere alla minaccia che li sovrasta non ci pensano nemmeno.
Naturalmente un piano di emergenza esiste, è previsto, e dovrebbe consentire di sgomberare l’intera area nel giro di 72 ore. Quel piano, però, sembra in grado di funzionare soprattutto sulla carta, perché nella realtà è affidato a un’unica via di fuga: la statale 268 del Vesuvio – ventisette chilometri di strada, per metà a una sola corsia, con continui cantieri e svincoli pericolosissimi. Tanto che, per l’alto numero di incidenti che si verificano, la statale è soprannominata “la strada della morte”.
Ma chi sono, oggi, gli abitanti del Vesuvio? E come fanno a convivere con un ospite tanto ingombrante?
[MARIA PACE OTTIERI] La “strenua inerzia” è una definizione abbastanza esaustiva che ancora rappresenta bene il carattere di queste persone. “Una strenua inerzia” vuol dire che è un posto molto faticoso dove vivere, è una delle regioni d’Italia più difficili, però c’è una specie di lavorio, di frenesia, di strenua tenacia nel volere rimanere lì.
Maria Pace Ottieri è una scrittrice milanese che nel 2018 ha pubblicato con Einaudi un reportage narrativo dal titolo Il Vesuvio universale, un viaggio nelle esistenze di chi resiste in bilico sul cratere, tra realismo e fatalismo.
[MARIA PACE OTTIERI] Chi sono questi abitanti? Sono 700 mila persone (erano 200 mila alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi sono più che triplicate) ed è una popolazione stratificata dal dopoguerra a oggi. Cioè ci sono gli autoctoni, le famiglie che da sempre hanno vissuto lì, a cui però si sono aggiunte migliaia di persone sfollate da Napoli – all’inizio dal terremoto dell’Irpinia, e poi in altre ondate – espulse dalla città, che ha sempre trattato questa zona come una periferia dove stipare gli abitanti in eccesso della città o dei quartieri più difficili. Quindi la proliferazione di case che noi attribuiamo sempre, per luogo comune, all’abusivismo è certamente in gran parte abusiva, ma non solo. Anzi forse la parte preponderante è proprio quella che è frutto di leggi, di licenze edilizie, di condoni.
L’ultima eruzione risale al 18 marzo 1944, in piena Seconda Guerra Mondiale, mentre Napoli era occupata dalle Forze Alleate. Fece 26 morti e, come quella che aveva seppellito Pompei secoli prima, ebbe un testimone letterario d’eccezione: Curzio Malaparte.
Questa è la descrizione che Malaparte ne fece in uno dei capitoli più drammatici del romanzo La pelle.
[SPEAKER MALAPARTE] E là, di fronte a noi, tutto avvolto nel suo mantello di porpora, ci apparve il Vesuvio. Quello spettrale Cesare dalla testa di cane, seduto sul suo trono di lava e di cenere, spaccava il cielo con la fronte incoronata di fiamme, e orribilmente latrava. L’albero di fuoco che usciva dalla sua gola affondava profondamente nella volta celeste, scompariva negli abissi superni. Fiumi di sangue sgorgavano dalle sue rosse fauci spalancate. La terra, il cielo, il mare tremavano. E un pianto disperato si levava dall’infelice città.
Dopo quell’ultima eruzione del 1944, il pennacchio che per secoli ha accompagnato l’immagine del Vesuvio in centinaia di dipinti e di cartoline è svanito. Non si vede più. Il condotto si è ostruito e il vulcano è entrato in una fase di quiescenza: all’apparenza, è una montagna come tutte le altre.
[MARIA PACE OTTIERI] Certamente il fatto che il Vesuvio abbia avuto periodi di quiescenza anche di secoli – per esempio, quello in cui vivevano gli abitanti di Pompei era uno di questi, tanto che loro lo consideravano una collina amena e generosa – (questo) ha impedito di prendere coscienza della sua minaccia. Prima del 1631, che è la data di una delle eruzioni storiche più potenti, era stato zitto per cinquecento anni. Perdipiù, tra un’eruzione e l’altra il Vesuvio ha sempre mostrato il suo volto più benevolo e munifico, e permette agli uomini di addomesticare le sue pendici fino al prossimo accesso d’ira. Ma il rischio, comunque, pennacchio o non pennacchio, è sempre molto difficile da percepire se in un territorio si è nati, ci sono nati i genitori, i nonni e generazioni di contadini che delle risorse della montagna (come chiamano il Vesuvio i locali) sono vissute per secoli. Per esempio, nell’ultima eruzione, quella del ’44, si è visto bene come le persone – ancora la gran parte erano contadini – conoscevano il Vesuvio, lo calpestavano, lo coltivavano tutti i giorni e sapevano benissimo come comportarsi. Non è stata un’eruzione delle più potenti, però perfino i bambini hanno cominciato subito a spalare la cenere nera dai tetti e dopo due mesi hanno ripreso a piantare gli ortaggi. Erano in armonia, appunto, con questa loro montagna.
Il fenomeno dell’antropizzazione – cioè la presenza e l’intervento dell’uomo nell’ambiente naturale – è molto diffuso attorno a Napoli. Ed è ancora più evidente nei Campi Flegrei, una vasta area che dista poco più di 40 chilometri da Pompei. Qui la gente non abita semplicemente alle pendici di un vulcano, ci abita sopra, letteralmente dentro il cratere. O meglio, dentro i crateri di questa enorme caldera, tanto sono numerosi e difficilmente localizzabili.
Anche i Campi Flegrei, come il Vesuvio, sono in una fase di quiescenza dagli esiti difficilmente prevedibili. Dall’esterno, quindi, non si vede nulla.
Alfred Hitchcock, il famoso registra di thriller, sosteneva però che è proprio ciò che non si vede a fare più paura: dalle parti del Vesuvio non sembrano essere d’accordo, eppure il pericolo c’è, eccome.
[VALERIA PARRELLA] Vivere sotto il Vesuvio significa doversi fare carico della possibilità di andar via da un momento all’altro, probabilmente per sempre. È un pericolo che si aspetta. Non si può sapere con certezza il momento, ma si sa con certezza che avverrà.
Questa è la scrittrice Valeria Parrella, finalista al Premio Strega 2020 con il romanzo Almarina e legata profondamente a Pompei e ai suoi scavi, come vi racconteremo tra poco. Secondo Parrella, esistono due piani: il primo è un piano politico, una presa di responsabilità enorme per chi ci vive.
[VALERIA PARRELLA] La presa di responsabilità è, ai livelli alti, quella di fare di tutto perché si possano limitare i danni nel momento in cui il fenomeno naturale si scatenerà. E quindi evitare che si costruisca, predisporre sistemi di fuga, predisporre abitazioni alternative per un numero di persone incredibile. La zona del Napoletano che va da Bagnoli a Castellammare, vista dall’alto, vista per esempio dalla funicolare del Faito, sembra un’enorme grande città, ed è una delle zone con più alta densità abitativa d’Europa. È anche una grande responsabilità starci, cioè sapere che, a parità di presa di coscienza, consapevolezza politica, in realtà uno decide di rimanere fino all’ultimo, finché può.
Poi c’è un secondo piano, un piano emotivo.
[VALERIA PARRELLA] Ogni volta che io sono salita sul Vesuvio, da ragazza oppure ultimamente abbiamo fatto delle belle passeggiate naturalistiche con mio marito (mio marito è originario dei Paesi vesuviani… ecco, noi li chiamiamo così, il Vesuviano, i paesi vesuviani: entrano anche nel nostro immaginario linguistico come una zona a sé). Siamo andati a vedere le fumarole, i conetti vulcanici, ed è incredibile perché si arriva dai paesini giù, quindi, che ne so, cento metri prima c’è una pasticceria, ti prendi un caffè, poi ti inoltri per un sentiero non più asfaltato e ti trovi appunto di fronte a dei fenomeni meravigliosi. Ed è commovente questa possibilità, questo dono enorme che abbiamo di poterci riappropriare immediatamente di qualche cosa di ìnfero, di qualcosa che viene da lontanissimo, viene dal centro della Terra. Credo che questa sia una fonte di energia inesauribile non tanto perché io creda che questa energia, che davvero esiste e che è calcolabile con le unità di misura dai fisici, arrivi davvero a noi. Ma quanto il fatto di sapere che c’è ci costringe a essere vivi.
Secondo alcuni studiosi, trentanovemila anni fa l’eruzione dei Campi Flegrei avrebbe prodotto 150 chilometri cubi di magma provocando, tra l’altro, l’estinzione dell’uomo di Neanderthal. Bene, qualcosa di simile potrebbe verificarsi anche oggi. Un’improvvisa esplosione del Vesuvio arriverebbe a scatenare una catastrofe nelle intere province di Napoli e Salerno, mentre gli effetti di un’eruzione flegrea potrebbero addirittura estendersi all’intero pianeta, causando piogge acide e un abbassamento globale delle temperature: è quello che viene chiamato inverno vulcanico, dovuto alle nubi di ceneri che oscurano il sole.
Ed è un inverno che può durare anni.
[FRANCESCA BIANCO] Da un punto di vista della pericolosità, è un’area sicuramente ad alta pericolosità.
Questa è Francesca Bianco, direttore dell’Osservatorio Vulcanologico Vesuviano che tiene sotto controllo un’area vastissima, di cui, oltre ai vulcani attivi in Campania, fa parte anche l’isola siciliana di Stromboli.
[FRANCESCA BIANCO] Tutti e tre i vulcani che insistono nell’area napoletana, ovverosia il Vesuvio, i Campi Flegrei e Ischia, sono dei vulcani che potenzialmente potrebbero dare luogo a una eruzione importante. Se a questo aggiungiamo anche delle altre valutazioni, che sono il contesto urbano in cui sono questi vulcani (e quindi, per esempio, qual è la vulnerabilità dei sistemi infrastrutturali e umani nel circondario di questi tre vulcani), beh naturalmente è una vulnerabilità alta, com’è alto il valore esposto: quante persone, quante infrastrutture potrebbero essere danneggiate o addirittura scomparire per effetto dell’attività dinamica di questi vulcani. E quindi diciamo che sono tutti e tre dei vulcani con un alto rischio: il loro alto rischio in questo momento non deriva dal loro stato dinamico, da un punto di vista vulcanologico, ma deriva purtroppo dalla enorme urbanizzazione che caratterizza queste aree.
La prima sede dell’Osservatorio Vulcanologico, fondato nel 1841 dal Re delle due Sicilie Ferdinando II di Borbone, fu costruita a ridosso del Vesuvio, in cima alla collina del Salvatore, sulla cresta del monte Somma. Uno sperone di roccia allungato, abbastanza vicino al cratere da consentire le osservazioni, ma anche protetto in maniera naturale dalle colate di lava. Il che fu provvidenziale per salvare la vita a Luigi Palmieri, il secondo direttore nella storia dell’Osservatorio, divenuto poi famoso per aver inventato il sismografo elettromagnetico.
Durante la grande eruzione del 1872, Palmieri rimase isolato per giorni e giorni, completamente circondato dalla lava. Ne uscì miracolosamente incolume, e per la sua dedizione si meritò la nomina a senatore del Regno d’Italia. In realtà, dal suo esempio il governo dell’epoca capì anche che era arrivato il momento di dotare l’Osservatorio di un telegrafo. Hai visto mai…
La descrizione che Palmieri fece dei fiumi di lava in cui era rimasto intrappolato è passata alla storia. Lo definì “uno spettacolo veramente sublime”, con la stessa emozione e la stessa cura per il dettaglio scientifico con cui Plinio il Giovane aveva descritto le ultime ore di Pompei e del suo celebre zio. Quella epistola a Tacito, del resto, è considerata il primo, vero trattato di vulcanologia, sia pure involontario. Sentite qui:
[SPEAKER PLINIO IL GIOVANE] “Per frequenti e forti scosse telluriche, la casa tremava. E quasi divelta dalle sue fondamenta, sembrava andare ora qua ora là, e ritornare al suo posto; all’aperto, invece, si temeva la pioggia di lapilli, sebbene leggeri e corrosi […] Sdraiatosi su un lenzuolo disteso a terra, Plinio chiese due volte acqua fredda, e bevve d’un fiato. [..] Sostenendosi a due schiavi cercò di alzarsi, ma subito cadde, io credo perché aveva la respirazione bloccata dall’aria densa di cenere e la gola chiusa. [..] Quando tornò il giorno, il suo corpo fu ritrovato integro e illeso, dall’aspetto più simile a un dormiente che a un morto”.
[FRANCESCA BIANCO] L’Osservatorio Vesuviano è il più antico osservatorio vulcanologico al mondo. Siamo qui da 179 anni, quindi non è poco. E siamo estremamente integrati nel tessuto sociale e urbano di queste aree. Tutti ci conoscono, tutti sanno che cosa facciamo. Per qualunque tipo di problema, dubbio, si rivolgono a noi, ci telefonano, ci scrivono: noi diamo risposte sia telefoniche che per e-mail, sono in contatto continuo. Fra l’altro, noi facciamo anche una grande opera di divulgazione, perché noi sappiamo che un’altra delle componenti fondamentali che fa capo alla comunità scientifica in relazione alle azioni di mitigazione del rischio è anche la comunicazione di quello che succede sui vulcani.
L’Osservatorio Vesuviano, quindi, monitora costantemente i parametri geofisici e geochimici della zona, e fornisce alla Protezione Civile dei bollettini periodici che rende visibili a tutti sul proprio sito internet: fornire informazioni accessibili alla popolazione e fare divulgazione, anche nelle scuole, sono parti importanti della sua attività.
[FRANCESCA BIANCO] La strumentazione negli ultimi anni è molto cresciuta dal punto di vista delle caratteristiche tecnologiche. Abbiamo una tecnologia sempre più affinata che ci permette sempre di più di studiare e registrare anche il più piccolo sospiro dei nostri vulcani. Ma man mano che noi andiamo avanti, al momento siamo ancora in quello stadio in cui non riusciamo a vedere com’è fatto in dettaglio l’interno delle nostre strutture vulcaniche – informazione che attualmente riusciamo a ottenere soltanto attraverso studi indiretti. Naturalmente, non avendo misure dirette, abbiamo una incertezza su tutte le nostre misure.
Questa incertezza incide notevolmente sulla capacità di fare previsioni. Previsioni, sottolinea Francesca Bianco, che sono sempre e soltanto di natura probabilistica, sia a breve sia a lungo termine.
[FRANCESCA BIANCO] Le previsioni probabilistiche a lungo termine (vuole dire fra dieci anni, cento anni) ci dicono che questi vulcani che hanno già eruttato in passato sicuramente erutterano in futuro, a meno che non intervenga un cambiamento rilevante nel loro stato dinamico. Le previsioni a breve termine, che sono quelle che sono basate soprattutto su che cosa ci raccontano i parametri che noi monitoriamo su tutti i vulcani con le nostre reti multiparametriche che sono riconosciute dai nostri colleghi stranieri come le più performanti al mondo, al momento questi parametri non ci danno indicazioni di un’eruzione imminente. La nostra incertezza nel definire una previsione probabilistica di inizio di attività eruttiva si riduce sempre di più man mano che i segnali che il vulcano ci dà diventano sempre più intensi.
Anche se spesso vengono usati come sinonimi, pericolosità e rischio hanno significati diversi. La pericolosità è la probabilità che un evento di una certa intensità accada in una determinata zona in un dato momento. Il rischio, invece, dipende da quanta gente abita in quella zona e da quanto, quindi, potrebbe andare distrutto, in termini di vite umane, costruzioni, infrastrutture, terreni agricoli…
A studiare la pericolosità dei vulcani è la scienza, che si applica nell’effettuare delle previsioni, come raccontava adesso Francesca Bianco. Il concetto di rischio, invece, come diceva prima Valeria Parrella, apre il campo alla responsabilità politica e civile: per evitare un disastro non basta prevedere; occorre anche pianificare, fare prevenzione, comunicare, affinché tutti i soggetti coinvolti – istituzionali e non – svolgano la propria parte.
In altre parole, l’uomo non può fare nulla per diminuire la pericolosità di un vulcano, poiché un’eventuale eruzione è un fenomeno naturale. Ma può intervenire sul rischio di conseguenze catastrofiche, attraverso la gestione del territorio.
Se n’era accorto per primo Jean-Jacques Rousseau, grande filosofo illuminista, dopo il terribile terremoto che nel 1755 aveva distrutto la città di Lisbona, uccidendo un terzo della popolazione. Così scriveva al collega Voltaire:
[SPEAKER JEAN-JACQUES ROUSSEAU] Converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice, come se nulla fosse accaduto.
Per la natura, insomma, le catastrofi non esistono: esistono solo in relazione alla società. La stessa parola, catastrofe, non ha sempre avuto il significato che noi le attribuiamo oggi, cioè quello di grave sciagura, un evento che colpisce per estensione e portata collettiva. Questa accezione entra nel linguaggio comune, appunto, con la cultura illuminista, proprio in occasione del terremoto di Lisbona che aveva suscitato forte impressione nei contemporanei. E lo fa attraverso il più illustre dei dizionari: l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
[ANDREA TAGLIAPIETRA] La parola catastrofe ha almeno due significati, quello antico e quello moderno.
Questo è Andrea Tagliapietra, professore di Storia della filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
[ANDREA TAGLIAPIETRA] Si tratta di una parola di derivazione greca. È composta dalla preposizione katà, che vuol dire “un movimento dall’alto al basso”, e da una forma nominale del verbo greco “strepho” che significa “girare, rivoltare”. Se possiamo pensare a un significato arcaico e originario della parola, come si fa in etimologia di solito, il verbo katastrépho da cui deriva catastrofe descrive il movimento dell’aratro che rivolta la terra e porta ciò che sta in profondità della terra alla superficie. È un’immagine molto interessante sia per le catastrofi antiche che per quelle moderne.
Il secondo significato di katastrépho è quello di “volgere al termine”, “finire”, che influenza l’impiego che della parola si fa nella poetica e nella retorica antica.
[ANDREA TAGLIAPIETRA] In questi contesti la catastrofe è la svolta che porta all’epilogo di una trama narrativa, ovvero quella che ne decide l’esito. Ma non è un epilogo che può andare verso il bene o verso il male: va solo verso il male. La catastrofe moderna è un elemento luttuoso collettivo che colpisce delle folle, moltitudini, popolazioni, spesso accomunate soltanto dalla medesima condizione accidentale di essere delle vittime. La catastrofe antica era l’evento luttuoso di un destino individuale che in qualche modo espiava una colpa; la catastrofe moderna colpisce chi non ha colpa. Infatti l’origine principale della catastrofe è la Natura, non è causata dalla volontà di qualcuno.
Soprattutto, dice Andrea Tagliapietra, la catastrofe moderna sfocia nel caos, non c’è razionalità né destino. Non c’è il senso.
[ANDREA TAGLIAPIETRA] Nell’ Encyclopédie degli Illuministi la parola “catastrofe” registra ancora il vecchio significato retorico di, appunto, mutamento nella narrazione di una diegesi tragica. Mentre, invece, nella voce “Tremblement de Terre”, cioè “terremoti”, la parola catastrofe viene usata nel senso moderno, cioè d’Holbach, questo illuminista materialista che ha redatto la voce “terremoto” dell’Encyclopédie, scrive appunto: “la immane catastrofe del terremoto di Lisbona”, quindi usa catastrofe nel senso che usiamo anche noi.
Quando la notizia del terremoto in Portogallo lo raggiunge a Parigi, Voltaire ne rimane così sconvolto che scrive di getto alcuni versi che diventeranno in breve molto famosi. È il Poema sul disastro di Lisbona, un’amara e feroce invettiva contro l’idea, formulata da Leibniz, di vivere nel migliore dei mondi possibili.
[SPEAKER VOLTAIRE]
Poveri umani! E povera terra nostra!
Terribile coacervo di disastri!
Consolatori ognor d’inutili dolori!
Filosofi che osate gridare tutto è bene,
venite a contemplar queste rovine orrende:
muri a pezzi, carni a brandelli e ceneri.
Donne e infanti ammucchiati uno sull’altro
sotto pezzi di pietre, membra sparse;
centomila feriti che la terra divora,
straziati e insanguinati ma ancor palpitanti,
sepolti dai lor tetti, perdono senza soccorsi,
tra atroci tormenti, le lor misere vite.
Prima ancora del terremoto di Lisbona, in realtà, era stata proprio la scoperta di Pompei, avvenuta nel 1748 con l’inizio degli scavi sotto Carlo III di Spagna, a innescare una profonda riflessione sul corso della storia e sugli eventi catastrofici di cui è costellato.
[ANDREA TAGLIAPIETRA] Queste due catastrofi, la catastrofe antica vissuta da Pompei Ercolano e la catastrofe moderna per l’allora modernità della metà del Settecento, trovano per la prima volta un richiamo a quella che chiameremo con un termine che nasce successivamente l’”opinione pubblica”.
Questo è di nuovo il professor Andrea Tagliapietra.
[ANDREA TAGLIAPIETRA] La catastrofe non è affidata, come in precedenza, a una spiegazione di tipo teologico. Invece abbiamo un forte impegno degli intellettuali europei illuministi per distinguere il male fisico che si registra nella catastrofe naturale dal male morale, cioè dal giudizio che si può dare a un colpevole della catastrofe – che sia Dio nella Teodicea, che sia l’uomo nell’Antropodicea. Potremmo dire che la catastrofe chiama in causa la cultura del suo tempo e chiede una risposta di senso che viene ritrovata nel presente stesso: il presente è il luogo dove si formula la domanda, ma anche dove si cerca la risposta.
La catastrofe, quindi, non rappresenta la fine assoluta. Piuttosto è una svolta che, per quanto drammatica, si inserisce nella continuità dell’essere e può condurre a un miglioramento, modificando le società umane. E questa idea, dice il professor Tagliapietra, è una riflessione che si forma nella cultura italiana, e va oltre il pensiero illuminista.
[ANDREA TAGLIAPIETRA] La via italiana che Leopardi implica nella Ginestra, ma che vediamo anche come sfondo di molti altri modi di vedere italiani, è quella per cui si costruisce a partire dalla catastrofe, si costruisce a partire dalle rovine. Le rovine sono nient’altro che la continuità storica della bellezza che continuamente si contrappone al decorso di un tempo che è molto più lungo di qualsiasi tempo umano. La vittima produce bellezza: la bellezza è la testimonianza della caducità. La bellezza, potremmo dire, è in qualche modo il fiore che cresce appunto sulle pendici del Vesuvio.
Attraverso l’eruzione del Vesuvio, insomma, la natura si manifesta in tutta la sua spaventosa potenza. Gli antichi la veneravano come una divinità onnipotente, per la sua smisurata grandiosità, ma a Pompei, in particolare, tra l’uomo e l’ambiente si instaura una relazione quotidiana tra l’uomo e l’ambiente che nei secoli successivi avrebbe influenzato non solo il pensiero ma anche l’estetica e il gusto.
[ANDREA GALLO] Le case prevedevano tutte uno spazio aperto. Erano case spesso chiuse all’esterno e aperte all’interno, che era un giardino – a volte anche un giardino d’uso, a volte anche un orto – ma insomma possedevano questo spazio.
Questo è lo storico dell’arte Luigi Gallo che ha diretto il restauro del verde nel Parco Archeologico di Pompei. Il simbolo di quell’intervento è il bellissimo recupero storico-botanico del piano inferiore della Casa dell’Ancora, circondato da un portico coperto a pilastri.
[ANDREA GALLO] I giardini di Pompei hanno interessato da subito gli artisti e gli architetti che si sono confrontati con l’architettura antica. Quindi i restauri dei giardini di Pompei sono stati fatti in realtà già a partire dall’Ottocento. Esistono giardini ripiantati, anche perché la stratigrafia ha permesso di poter avere immediatamente il disegno del giardino originale, quindi sono stati piantati giardini sulla traccia di quanto si trovava dei giardini antichi. La ricerca contemporanea ha approfondito questo atteggiamento sui pollini, sulle radici, sugli apparati radicali, ricercati tramite dei calchi, quindi sono stati ripiantati giardini con essenze che erano le essenze originarie. D’altro canto, questo non è stato sempre possibile. Sapete che Pompei ha anche subito un bombardamento, quindi dove le bombe hanno toccato il suolo evidentemente è stato impossibile fare questo tipo di ricerca e quindi sono stati realizzati dei giardini evocativi che si relazionano sia con le fonti antiche sia anche con un’interpretazione più moderna e più contemporanea degli spazi verdi di Pompei.
Di certo, il riemergere delle antichità pompeiane ha spinto a interrogarsi sui limiti dell’uomo e sulla sua fragilità. Anche Giacomo Leopardi, citato prima dal professor Tagliapietra, ricorre all’immagine del disastro del Vesuvio quando vuole descrivere la piccolezza dell’essere umano – e la sua arroganza – di fronte a una natura superiore, distante e indifferente.
[LETTURA LA GINESTRA]
Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor nè fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Sono i versi iniziali de La Ginestra, letti proprio da Valeria Parrella durante un evento del Salone del libro di Torino 2020. La scrittrice, che a Pompei ha ambientato Lettera di dimissioni, uno dei suoi primi romanzi, dichiara una passione assoluta per Leopardi, che è morto nel 1837 a Torre del Greco, dove lei invece è nata.
[VALERIA PARRELLA] … Quindi di Leopardi amo tutto. La ginestra, in particolare, è legata a degli scenari, dei panorami che io conosco molto bene, che sono struggenti: intendo sia i panorami veri, la vista del Monte Somma, la vista del Vesuvio, del cono, la vista del momento in cui la vegetazione scompare perché c’è il segno dell’ultima colata lavica, che chiaramente era diversa quando Leopardi la guardava, perché l’ultima è stata durante la guerra, però la traccia segnata è quella, oltre la quale quindi la vegetazione non riesce a emergere. Conosco i colori del Vesuvio, e gli scenari come scenari affettivi, come scenari di possibilità. Perché quello che racconta La ginestra è una cosa che chi vive a Napoli conosce bene, credo un po’ in tutti i Sud del mondo: c’è una capacità incredibile, nella stessa terra, di vedere la morte e la resurrezione, il riarso e la natura che sboccia, il colore giallo e la necrosi delle unità abitative. Ai tempi di Leopardi non c’erano gli abusi edilizi che ci sono adesso, ma è come se li avesse saputi raccontare già da prima. E poi, infine, c’è Pompei. Cioè, infine, c’è uno scenario che è uno scenario comune ed è una cosa incredibile, se ci pensi, l’idea che attraverso duecento anni abbiamo visto le stesse cose, ci siamo storditi della stessa meraviglia, abbiamo avuto paura della stessa cosa, cioè abbiamo visto insieme, nello stesso luogo, la caducità umana e la forza dirompente della ginestra, che proprio lì dove gli uomini e le loro case sono combusti fa rinascere ogni anno i suoi fiori.
La scoperta di Pompei, quindi, diventa un simbolo universale della bellezza che anche una catastrofe è in grado di produrre. Una estetica del disastro che, dalla fine del ‘700 fino ai primi anni del Duemila, ha raccontato il dramma di Pompei in dipinti, opere musicali e letterarie, spesso con toni che oggi definiremmo sensazionalistici. Gli ultimi giorni di Pompei è in assoluto il titolo più frequente, dal romanzo del 1834 di Edward Bulwer-Lytton (da cui sono stati tratti una decina di film) al best seller di quasi 170 anni più tardi scritto da Robert Harris; dal melodramma di Giovanni Pacini, che andò in scena al Teatro San Carlo di Napoli nel 1825, al grande quadro di Karl Brjullov esposto poco dopo al Museo russo di San Pietroburgo.
Più lo spettacolo è spaventoso e più è attraente, in una vertigine che induce a confrontarsi con l’assoluto. Con la frattura, insanabile e allo stesso tempo vitale, del disastro.
[VALERIA PARRELLA] Non si ricompongono gli elementi del disastro. La vita è un continuo accomodamento degli elementi del disastro, mica c’è ricomposizione: se ci fosse ricomposizione, saremmo finiti, non avremmo nulla da cantare, da scrivere, per cui piangere, ridere. Si va avanti proprio perché non esiste la ricomposizione.
Pompei, città morta eppure per sempre viva, non ha però solo evocato il dramma della sua fine. Ha anche consentito di avvicinarsi al passato in maniera straordinariamente diretta, e di pensare alla continuità della vita, al suo scorrere e al suo rigenerarsi. Pompei stessa è rinata, quando è stata riportata alla luce. E proprio della storia degli scavi, degli uomini e delle donne che con il loro ingegno hanno ridato vita alla città sepolta vi racconteremo nel prossimo episodio.
[FINE]