E05. Cambio casa, cambio città. Torno a casa
Le aree interne e i piccoli borghi rappresentano il 60% del territorio italiano. Vere ricchezze, che però, a partire dagli anni del boom economico, hanno vissuto un progressivo spopolamento.
Durante la pandemia questa tendenza si è invertita: migliaia di persone, soprattutto giovani, hanno cercato di reinventarsi lasciando uffici e grandi città per trasferirsi in posti più piccoli. Come nuovi “Ulissi”, in molti sono tornati a casa, al Sud o in montagna, da dove anni prima erano fuggiti. Se questo fenomeno si confermerà in futuro, che cosa si sta facendo per investire nella valorizzazione dei borghi e nel recupero delle abitazioni? Come si potrà vivere coniugando la necessità di infrastrutture adeguate e il desiderio di stare più a contatto con la natura?
Ma soprattutto, quali benefici e quali conseguenze possono derivare dalla scelta di un’esistenza lontana dalle grandi città? E in che modo si potrà sfruttare il bagaglio di esperienze e conoscenze della vita precedente per creare nuove opportunità in luoghi che, come dice la professoressa Elena Granata, «non devono rinascere, ma essere reinventati e riscritti»?
Ne parliamo con: Elisa Bacchetti, responsabile di GrandUp! Impact Mountain School, Andrea Membretti, sociologo e coordinatore scientifico di una ricerca svolta da Riabitare l’Italia, ed Elena Militello, fondatrice dell’associazione South Working.
Ecco la trascrizione completa dell’episodio.
[VIDEO]
CARLO ANNESE
A Olollai, un paesino di 1.200 abitanti in provincia di Nuoro, nella primavera del 2018 arrivarono le telecamere della tv olandese RTL per girare un reality show.
[Upsound VIDEO]
CARLO ANNESE
Cinque giovani famiglie avevano accettato di trasferirsi dall’Olanda in quel borgo della Barbagia per cambiare vita, comprando casa al prezzo simbolico di un euro. Avrebbero dovuto rimetterla in piedi per restarci alcuni mesi all’anno – o magari per sempre – e sostenere il tentativo di rigenerare uno dei tanti paesi spopolati nel centro della Sardegna. Il problema principale, però, mi ha raccontato al telefono Michele Cadeddu, presidente della Cooperativa di Comunità, è che lì non c’è lavoro: «Per trasferirsi a Ollolai, bisogna reinventarsi», mi ha detto. Ma è proprio quello che hanno pensato di poter fare migliaia di persone, soprattutto giovani, durante la pandemia. in molte altre parti d’Italia: hanno lasciato uffici e grandi città, e si sono trasferiti in posti più piccoli, al Sud o in montagna. Molti di loro sono tornati a casa, da dove erano partiti – o fuggiti – anni prima.
LUCA MOLINARI
Siamo così abituati a vivere nelle centinaia di città e centri urbani che punteggiano le nostre coste e pianure che ci dimentichiamo spesso come le aree interne costituiscano il 60% del territorio nazionale. Sono la vera ricchezza del nostro Paese, un unicum a livello mondiale che, a partire dal boom economico degli anni Cinquanta, è andato progressivamente a spopolarsi, malgrado sia uno dei cuori più antichi e verdi d’Italia.
CARLO ANNESE
Gran parte di questo patrimonio, però, è da recuperare. In Italia ci sono 5.800 Comuni con meno di 5.000 abitanti, e 2.300 sono in stato di abbandono. Molti sono paesini quasi inaccessibili, non sempre affascinanti dal punto di vista architettonico, e spesso privi dei servizi pubblici essenziali, per non parlare della connessione a Internet, ovviamente. Se si sono svuotati, ci sarà un motivo…
LUCA MOLINARI
Durante la pandemia alcuni architetti di grido hanno inneggiato alla morte della città sollecitando un ritorno ai borghi abbandonati. Una proposta figlia di una idealizzazione nostalgica, spesso poco consapevole delle complessità che concretamente questo potrebbe rappresentare. Al di là delle provocazioni rassicuranti, buone per le prime pagine dei giornali, c’è invece da chiedersi se e quanto sarebbe praticabile e conveniente, in termini di spesa pubblica, trasformare il rilancio e la valorizzazione di questi piccoli centri in un obiettivo principale delle nostre politiche urbane. Recuperare la ricchezza rappresentata dal paesaggio umano e naturale delle aree interne dovrebbe essere un vero obiettivo, ragionando però da prospettive completamente inedite: si dovrebbe puntare a un’idea policentrica e fluida che investa innanzitutto su una infrastrutturazione della fibra, capace di innervare il nostro Paese e di consentire vere forme di nuova colonizzazione – chiamiamola così – dei territori abbandonati.
Io sono Luca Molinari…
CARLO ANNESE
… Io sono Carlo Annese. E questo è Le case di domani – Come vivremo e dove abiteremo dopo il Covid. Un podcast prodotto da Piano P con il sostegno di Gibus – Pergole e tende per vivere alla luce del sole.
LUCA MOLINARI
Sai che non conoscevo la storia di Ollolai, quella del reality show che hai raccontato prima? Interessante! Ma poi com’è andata a finire?
CARLO ANNESE
È finita che, spente le telecamere, delle cinque famiglie olandesi dello show solo due hanno continuato a frequentare Ollolai. Mentre su 17 progetti di ristrutturazione approvati dal Comune per altre case vendute a un euro, solo 7 sono stati portati a termine. Tanto che, per non perdere i finanziamenti regionali, il Comune ha deciso di affittarle – sempre a un euro, naturalmente. E ora il sindaco vuole candidare Ollolai a Capitale Italiana della Cultura 2025, per dare voce alle piccole comunità che si oppongono all’inurbamento incontrollato. Una forma di resistenza orgogliosa, in un Paese, però (intendo l’Italia) che a causa del Covid si è scoperto ricco di opportunità diverse, tutte da coltivare. Per esempio, in montagna.
[ELISA BACCHETTI]
Imparare a vivere in montagna sicuramente si può. Serve molta sperimentazione, serve farlo e serve metterlo in pratica.
CARLO ANNESE
Lei è Elisa Bacchetti, 33 anni, responsabile di GrandUP! Impact Mountain School, una scuola avviata da Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e Social Fare alla fine del 2021.
[BACCHETTI]
Abbiamo cercato di mettere in piedi questa azione, in quattro giornate vissute intensivamente, in questa prima edizione nel rifugio Paraloup, del paesino di Rittana, in cui confrontarsi con altre persone – erano 20 i partecipanti – che hanno questa volontà di imparare a vivere in montagna. E lo si fa confrontandosi all’interno del gruppo, ma anche con professionisti che già fanno impresa in montagna, che vivono in montagna o che lì lavorano, piuttosto che studiano la montagna, quindi possono portare dei punti di vista differenti. Come ad esempio, possono essere il contributo dell’innovazione sociale ad andare a vivere in montagna, il contributo di strumenti di design al vivere in montagna, ma anche dal punto di vista architettonico ed economico di come si può fare montagna, come si può andare effettivamente a vivere
CARLO ANNESE
Il primo corso, dicevamo, si è tenuto nel 2021, e ne seguiranno altri due, perché molte persone sono entusiaste all’idea di trasferirsi. Anche se poi – un po’ com’è accaduto a Ollolai – il tasso di insuccesso è dell’80%.
[BACCHETTI]
Avevamo una metà dei partecipanti dal Cuneese, una metà da fuori. Le età erano comprese tra i 19 e i circa 60 anni – quindi proprio una varietà ampia – e circa una metà tra uomini e donne, dalle professioni più disparate, quindi dallo studente a chi ha già un’impresa propria, magari anche in montagna, piuttosto a chi è un docente, uno studioso o un ricercatore.
CARLO ANNESE
La stessa Elisa Bacchetti è della provincia di Varese. Si è dedicata a lungo al design per il sociale, prima sui temi ambientali al Politecnico di Milano, poi con un’attenzione sempre maggiore alla sostenibilità. È arrivata alla montagna come Service Systemic Designer di SocialFare, un Centro per l’Innovazione Sociale di Torino, che partecipa anche allo sportello avviato dalla Città Metropolitana per aiutare chi vuole vivere e lavorare nelle Terre Alte del Piemonte: nei primi cinque mesi di attività, si sono rivolti in 35.
[BACCHETTI]
È un tema a cui tengo molto, e credo che davvero si possa un po’ fare la differenza promuovendo anche questo tipo di aree che hanno veramente al loro interno una grandissima ricchezza, una grande forza, una grande voglia.
LUCA MOLINARI
L’Italia è da sempre un paese policentrico a tantissime scale, dal borgo passando per i centri medi fino alle nuove aree metropolitane. Questa varietà rappresenta una ricchezza culturale, naturale, sociale ed economica che non si trova in altri Paesi europei. Una ricchezza densa e diffusa, cuore della complessità, che si materializza nelle architetture e nella qualità degli spazi pubblici, oltre che nelle centinaia di dialetti, gastronomie, materie e geografie che raccontano del nostro sistema ecologico. E in questi ultimi due decenni stiamo leggendo un’interessante inversione di tendenza che porta sempre più giovani a guardare alle aree meno abitate come a una risorsa e un’opportunità da conoscere e abitare attivamente.
CARLO ANNESE
Sì, ma per diventare concreta, questa opportunità ha bisogno di soldi. Un modo per ottenerli – oltre a quelli già stanziati fino al 2027 dalla Strategia nazionale delle Aree Interne – può essere il Pnrr, la panacea europea dei mesi del Covid. Il problema, però, è che il bando dedicato ai borghi in questo Piano di ripresa e resilienza con l’obiettivo di ristrutturare case e portare nuovi abitanti ha fissato dei criteri che non sono piaciuti a nessuno. In una delle due linee di finanziamento mette a disposizione 420 milioni di euro, ma solo per 21 progetti, selezionati a libera interpretazione da Regioni e Province autonome. Ora, 420/21 fa 20, quindi a un borgo disabitato, in declino o in abbandono andranno 20 milioni di euro, mentre ad altri, in condizioni anche migliori, quindi bisognosi appena di completare interventi già in atto, neanche un euro.
LUCA MOLINARI
È come giocare alla lotteria…
CARLO ANNESE
Eh, sì. Tanto che Marco Bussone, giovane presidente dell’Unione Comuni Comunità ed Enti Montani, ha lanciato la provocazione di togliere dal vocabolario la parola borgo. «La usino pure archistar», ha detto, «e altri che nei territori non hanno mai vissuto e mai ci vivranno, ma ne parlano con saccenza, prendendoci in giro».
LUCA MOLINARI
Bussone sarà pure giovane, ma questa è saggezza antica! Emerge ogni volta la naturale diffidenza verso i cittadini e la loro incapacità di comprendere la durezza e la complessità della vita lontano dai centri. Mentre uno dei rischi, paventato da molti, è che questi territori finiscano in balia di speculatori e acquirenti senza troppi scrupoli, riproponendo quindi la tipica soluzione “all’italiana” incentrata sull’edilizia senza intelligenza né empatia per i luoghi e la loro ricchezza stratificata. Nelle aree interne c’è ben poco da costruire ex novo. C’è, piuttosto, un enorme patrimonio naturale e culturale da conoscere e interpretare in una chiave fortemente contemporanea e con una prospettiva assolutamente spiazzante e insieme radicata.
[ELENA GRANATA]
Quando parliamo di rigenerazione dei luoghi usiamo spesso un’espressione: riscoprire, rivisitare il genius loci. È un’espressione romantica, che rinvia all’abitudine latina di immaginare che dentro i luoghi abitasse uno spirito che permaneva nel tempo, che era quello che garantiva l’identità di un luogo nella lunga durata.
CARLO ANNESE
Questa è Elena Granata, docente di Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, che avete già ascoltato nel terzo episodio.
[GRANATA]
Ecco: io oggi vorrei rovesciare questo slogan dicendo Genius non est loci. Che cosa vuol dire? Spesso l’innovazione, la vita, la creatività non viene da attori che abitano permanentemente nel luogo, ma viene da qualche straniero, da qualche cittadino di ritorno, da qualche impresa che viene dall’estero. Cioè: l’innovazione nei luoghi alle volte ha bisogno del barbaro, dello straniero, della persona libera di mente, capace di entrare con più disinvoltura e reinterpretare una storia che se no rischia di diventare una gabbia.
CARLO ANNESE
Questo approccio, secondo Elena Granata, serve a evitare quello sguardo nostalgico e un po’ oleografico di cui parlavamo all’inizio. A non volgersi col ciglio umido verso un passato che ora si tende a esaltare. «Non bisogna dimenticare che la casa era spesso un posto appena vivibile», ha scritto Vito Teti, ordinario di Antropologia Culturale all’Università della Calabria, in una raccolta di interventi su Aree interne e Covid pubblicata da Lettera Ventidue. «Si resta sgomenti e sorpresi dai soffitti bassi e dagli ambienti angusti delle case nei paesi abbandonati. Il paese, fino a tutti gli Anni 50, è agglomerato fatiscente, luogo della sporcizia, della malattia, della fame. La casa contadina appare ai meridionalisti e ai viaggiatori, ai narratori e ai relatori d’inchiesta, più che altro un luogo di sofferenza».
LUCA MOLINARI
Per quanto riguarda l’oggi, comunque, parliamo di quasi due terzi del territorio nazionale, abitato da quasi 15 milioni di persone. Un numero sicuramente per difetto, che dovrà essere aggiornato appena il peggio della pandemia sarà alle spalle.
CARLO ANNESE
Nel 2021 l’associazione Riabitare l’Italia ha svolto una ricerca proprio su questo, con un ampio campione di giovani tra i 18 e i 39 anni. Il 67% degli intervistati è orientato a rimanere nel Comune delle aree interne in cui vive, e il 54% di quelli che di recente hanno vissuto fuori dal proprio Comune di nascita ha intenzione di tornare, se non lo ha già fatto.
[MEMBRETTI 1]
I giovani hanno dato delle motivazioni legate innanzitutto alla dimensione sociale e alla dimensione ambientale.
CARLO ANNESE
Questo è Andrea Membretti, sociologo e coordinatore scientifico della ricerca.
[ANDREA MEMBRETTI]
Il percepire la propria area interna la propria area anche remota il proprio borgo il proprio territorio montano come uno spazio dove le relazioni sociali e interpersonali sono più ricche rispetto alla metropoli.
CARLO ANNESE
E poi, oltre alla convenienza economica, c’è l’ambiente,…
[MEMBRETTI]
… l’ambiente naturale, soprattutto, quindi la possibilità di vivere in un luogo percepito come, più o meno insomma, naturale, incontaminato o comunque lontano sempre dalla metropoli. Dal punto di vista paesaggistico, quindi, piacevole, un luogo che si possa percorrere, un luogo che si possa vivere dal punto di vista anche delle variabili ecologiche.
LUCA MOLINARI
Sembra essersi definitivamente placata quella spinta a cercare nelle grandi città la soluzione ai problemi e la possibilità di abitare modernamente. Oggi la rete, la progressiva smaterializzazione delle infrastrutture dei dati e della comunicazione, stanno rendendo potenzialmente ogni luogo, anche il più remoto, adatto a una vita e a un lavoro profondamente contemporaneo, riducendo l’effetto di distanza centro-periferia che ha caratterizzato il paesaggio italiano per secoli.
CARLO ANNESE
Per dare ulteriore significato alla ricerca di Riabitare l’Italia, proprio il professor Vito Teti che citavo prima ha dato un nome a questo fenomeno: l’ha chiamato Restanza.
[MEMBRETTI]
Con restanza intendiamo questa propensione attiva a rimanere nel proprio territorio, soprattutto nelle aree interne, nelle aree montuose, remote del Paese. Non semplicemente, quindi, un rimanere che è in qualche modo residuale, ma un atto del restare, qualcosa che ha a che fare con una progettualità, che ha a che fare con l’investimento del proprio capitale – culturale, umano, sociale, cognitivo, economico – anche nell’area in cui si decide appunto di restare. Quindi la restanza è frutto di una scelta.
CARLO ANNESE
Ma è una scelta, spesso dolorosa, anche quella di ritornare. È la scelta che ha fatto Elena Militello.
[ELENA MILITELLO]
Io sono nata a Palermo, la città dalla quale sono andata via 17 anni, dopo il liceo, per andare a studiare a Milano. Sono rimasta a Milano circa sette anni e poi da Milano mi sono spostata all’estero. In totale un anno e mezzo negli Stati Uniti, un anno circa in Germania e l’ultimo anno, prima della pandemia, in Lussemburgo. Non appena l’ambasciata italiana ci ha dato la possibilità di rientrare, mi sono messa in macchina e sono tornata a Palermo, in un viaggio di tre giorni, e alla fine di questo viaggio abbastanza rocambolesco, mi è venuta una bozza di idea che poi ho condiviso con gli amici più cari e con diversi altri ragazzi che erano andati via, come me, abbastanza giovani, che lavoravano fuori dalla loro regione di origine.
CARLO ANNESE
L’idea di Elena ha preso forma in South Working, un’associazione di professionisti, manager, imprenditori e accademici, di cui lei è presidente, che cerca di facilitare l’arrivo al Sud di giovani formati e con la giusta energia: possono essere ritornanti, come Elena, ma anche forestieri che scelgono il lavoro da remoto, trasferendosi in zone magari belle ma marginalizzate, e con soluzioni creative. A Brindisi, per esempio, la città in cui sono nato io, un trentenne ha lavorato per dieci giorni, nell’ ottobre del 2020, in uno yacht attraccato sul lungomare, ai piedi della colonna terminale della Via Appia, in un progetto di Destination Makers patrocinato dal Comune.
[MILITELLO]
Siamo partiti dall’idea di un Sud diverso, di un Sud possibile, come l’abbiamo spesso definita, cioè l’idea che le cose potessero cambiare. (…) E abbiamo cercato di scardinare il paradigma con cui siamo cresciuti, cioè l’idea che andare via fosse l’unica cosa possibile e che si dovesse tornare appunto solo per le vacanze o, come diceva mia madre, solo per la pensione.
CARLO ANNESE
Ora, va detto tra parentesi che Elena Militello è un caso particolare. Ha 28 anni e a settembre del 2021 ha vinto un anno come visiting scholar all’università di Harvard, quindi farà su e giù tra Palermo e Boston. Fa parte, insomma, di quella comunità di nomadi digitali che durante la pandemia è cresciuta esponenzialmente in Italia. Per il 64% sono persone tra i 30 e i 49 anni, in prevalenza donne, freelance e liberi professionisti, attirati dall’idea di coniugare smart working e lavoro in presenza.
LUCA MOLINARI
L’idea tradizionale che abitare voglia dire legarsi permanentemente a un luogo è solo una proiezione culturale del nostro mondo, mentre la casa che siamo ci accompagna in ogni luogo. Abitare nasce come sentimento nomade e segue le nostre vite ovunque decidiamo che sia importante e dove proviamo un sentimento positivo di accoglienza e protezione.
CARLO ANNESE
Okay, chiusa parentesi…
[GRANATA]
La rinascita di un borgo ha sempre a che fare con un’attività imprenditoriale, con un gruppo di ragazzi che decide di tornare a vivere, con un brand che magari decide di fare turismo di qualità in un luogo. E quindi parte sempre dall’energia delle persone che è un’energia molto concreta, che ha a che fare con l’economia.
CARLO ANNESE
Lei è di nuovo Elena Granata, autrice di Placemaker, un libro sulle trasformazioni dell’abitare e del vivere sociale in cui a queste donne e a questi uomini portatori di energie nuove la professoressa dà il nome di Ulissi.
[GRANATA]
Chi torna a vivere nel paese d’origine, in montagna, in un borgo che gli è stato caro, magari legato alla propria famiglia, torna con una testa profondamente diversa da quella che aveva quando abitava in quei luoghi. È una testa che si è confrontata con la varietà, la pluralità dei modi di abitare, quindi questi che chiamo nel mio libro Gli Ulissi, che sono una generazione fra i 30 e 40 anni, che decide di tornare in Italia e decide di farsi carico di alcuni pezzi di territorio, di alcuni brani urbani delle periferie piuttosto che di borghi, lo fa con un richiamo al territorio di origine che non ha nulla di nostalgico. È ricominciare a vivere in un luogo perché quel luogo offre degli appigli e delle possibilità progettuali tutte rivolte al futuro e quindi queste storie a me piacciono molto perché sono storie non di rinascita ma di reinvenzione dei luoghi e tutta la storia europea una storia di riscrittura, di sovra scrittura, come se fosse uno spartito antico su cui si scrive una musica sempre nuova.
LUCA MOLINARI
Per ricchezza e complessità, l’Italia è un Paese che si presta a essere, ogni volta, riscoperto e riprogettato. La storia dei nostri territori e un’osservazione attenta delle nostre terre mostrano che i flussi e le maree migratorie hanno modellato e abbandonato le aree anche più nascoste lungo i secoli. Quelle che oggi noi chiamiamo aree fragili sono terre in attesa di uno sguardo e di strategie inedite che le possano interpretare come risorsa per il futuro. L’abbandono è nei nostri occhi, non nei luoghi in sé. Questa idea di aree fragili deriva dalla recente definizione formale in corrispondenza dei primi Fondi strutturali europei (2000-2006). È importante, quindi, non lasciare il campo solo all’entusiasmo e all’ottimismo di una nuova generazione in cerca di nuove prospettive, ma pensare a politiche mirate che garantiscano a questo slancio una vera possibilità. Oggi in questa definizione di “aree fragili”, oltre alle aree montane e alle regioni del Sud, ancora contraddistinte da tassi di sviluppo inferiori, rientrano anche aree industriali in crisi e quartieri urbani periferici che hanno bisogno di essere ripensati lasciando il ‘900 definitivamente alle spalle.
CARLO ANNESE
Di questo – di periferie fragili, marginalità, identità perdute da interi quartieri – parleremo nel prossimo episodio. E in particolare parleremo di Milano, la città che a partire dall’Expo del 2015 è stata il laboratorio italiano dell’innovazione in architettura, urbanistica, mobilità e convivenza sociale, non sempre con risultati positivi, e che la pandemia ha messo a dura prova. A presto.
[SIGLA FINALE]
Le case di domani è un podcast di Carlo Annese e Luca Molinari, prodotto da Piano P con il sostegno di Gibus – Pergole e tende per vivere alla luce del sole.
Editing audio di Giulia Pacchiarini. Montaggio di Giacomo Vaghi. Ha collaborato ai testi Cristina D’Antonio.